8 marzo 2010

8 marzo: festa dei rasoi degli uomini.

Oggi si ricorda il 1908.
Si dovrebbe ricordare; ma si festeggia.

Centoventinove operaie dell'impresa Cotton di New York, centodue anni fa, furono rinchiuse nella loro fabbrica, dai loro datori di lavoro e arse vive.
Erano colpevoli di aver scioperato.

Quale miglior modo di ricordarle di una bella cena, una sbronza e uno strip?
Due fiori gialli? Perché no. Magari una trombatina dopo, io sopra e lei sotto. Quindici minuti per marcare il cartellino, che non si monti la testa. Giusto per ricordare il momento solenne dell'otto marzo.

A New York, alla fabbrica della Cotton, centodue anni prima della mimosa che comprerete o riceverete oggi, quelle donne stavano solo chiedendo una vita migliore. Stavano reclamando la sola vera aspirazione che ogni essere umano che sbuca in questo mondo possiede: l'essere felice.

Ne è passato di tempo. E' passato il femminismo. E' passata la rivoluzione sessuale: il demone dentro. E' passato il postfemminismo, che come uno tsunami di sborra ha sommerso tutto.
Che rimane oggi di quelle centoventinove operaie bruciate vive?

Quasi nulla, a stento il ricordo. L'hanno cancellato il ricordo, nascosto sotto un poster della Canalis che bacia George Clooney.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare.

Non che non c'abbiano provato, almeno per un po'. Purtroppo la strada era quella sbagliata. Le altre operaie, le madri, le mogli, le puttane, le figlie, tutte quelle che non erano in quella fabbrica, a New York, centodue anni fa, ci hanno provato. Ma a fare cosa?

La peggior cosa possibile, pensando che fosse l'unica. Hanno provato a scimmiottare l'uomo. Mancava però il pene. Così hanno preso a scimmiottarne il ruolo, il modello.

Che errore! Che condanna! Pensare che noi uomini stavamo aspettando loro, quelle centoventinove operaie della Cotton, per liberarci dal nostro modello. Da soli non potevamo farcela, sotto sotto l'abbiamo saputo sempre. Aspettavamo quelle voci, ma quelle grida erano state soffocate nel fumo, a New York, centodue anni fa.

Allora sono arrivate le mogli, le madri, le suore, le puttane, le figlie che volevano essere il nostro modello, quel modello che noi uomini avevamo costruito per renderci schiavi. Le mura della nostra cella: la chiesa, la casa, la società, il dovere, il comando, il cazzo eretto: produci consuma crepa.

E' un giogo. Troppo basso per essere attraversato in piedi, con la schiena dritta. Così ci siamo chinati, ingobbiti. Le ossa si sono rotte, ci siamo mutilati da soli: deformi nel modello che noi avevamo disegnato col nerofumo del rogo del 1908, a New York, nello stabilimento della Cotton.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare. I bambolotti, che un giorno sarai madre. Il vestito da sposa, che quel giorno sarai la più bella. La giacca. La gonna. Il lavoro. Il successo. La gara. Il cazzo eretto. Produci. Consuma. Crepa.

Hanno preso il nostro rasoio e non avendo barba l'hanno usato per decapitarsi, per passare anche loro sotto il giogo costruito dagli uomini. Storpie, deformi, come deforme era il loro modello. Il cristo uomo deforme: padre, marito, padrone, figlio, amante, schiavo, carnefice.

A passare sotto quel giogo non sapevano cosa le aspettava. Mi viene da essere contento per quelle centoventinove operaie. Loro almeno non hanno visto altro che fumo negli occhi, nei polmoni, il fuoco sulla pelle. Non hanno visto Sex and the City, le veline, le stagiste godive, la Carfagna ministro delle pari opportunità, le donne manager, FX, Studio Aperto, la Canalis, le mogli dei calciatori, Ilari Blasi, quelli che il calcio condotto dalla Ventura, gli stivali da seicento euro, l'anoressia, le erboristerie, le diete, la Santanchè, le palestre, le copertine photoshoppate. In una parola: cadaveri deformi, automutilati con i nostri rasoi e considerate alla pari di idrovore da sborra.

E noi, qui, impotenti e deboli, ad aspettare ancora di essere salvati.

E' tempo di festeggiare.

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