15 dicembre 2011

Viaggiare.

"Viaggiare è molto utile, fa lavorare l'immaginazione, il resto è solo delusioni e pene. Il nostro viaggio è interamente immaginario, è là la sua forza.
Va dalla vita alla morte. Uomini, animali, città e cose, tutto è immaginario. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo ha detto Littré che non sbaglia mai.
E poi, innanzi tutto a tutti è possibile, basta chiudere gli occhi.
È dall'altra parte della vita."


Louis-Ferdinand Céline
Viaggio al termine della notte.

16 ottobre 2011

La banalità della responsabilità ontologica. Black bloc e borghesucci feat. Herr Adolf Eichmann.

A volte capita, che anche in posti improbabili, come un paesino dell’entroterra marchigiano o una cittadina ligure, nascano delle persone interessanti. Nella fattispecie un’archeologa e antropologa con la passione del cosplay hentai e un filosofo hipster dedito più che altro all’alcolismo. A loro va il merito della metà di questo articolo. L’altra metà invece è dedicata ad uno dei servizi del telegiornale di Minzolini che ho, aimè, appena visto. La ringrazio di cuore direttore, lei non fa mai mancare la sua presenza ogni volta che facciamo un passo ulteriore verso la catastrofe.


Il 19 marzo 1906, in una cittadina della Renania settentrionale, Solingen, nasce il signor Adolf Eichmann. Cinquantasei anni dopo, il 31 maggio 1962, il suo corpo penzola da una forca in una cella della prigione di Ramla, Israele. Vediamo cosa è successo in questi cinquantasei anni.

Nella sua vita il signor Eichmann è stato un nazista. Per la precisione, un burocrate. Non ha contribuito in nessun modo alla giustificazione dialettica dell’ideologia nazionalsocialista tedesca, non ha scritto libri, non ha tenuto discorsi, non ha preso alcuna decisione politica.
Si è limitato ad occuparsi della tecnica e della tecnologia della cosiddetta “soluzione finale”. La sua carriera è iniziata con l’organizzazione della deportazione degli ebrei viennesi, in seguito all’Anschluss dell’Austria nel 1937, per poi continuare fino agli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.
Eichmann passava le sue giornate di fronte ad una scrivania. Si occupava di particolari. Quanti litri di Zyklon B si dovevano ordinare alla Bayern, a quali campi dovevano essere inviati e in quali quantità, quanti ebrei potesse ospitare ogni campo, in quanto tempo fosse possibile smaltire i corpi dei morti, quanto profonde dovevano essere le fosse comuni, quanto carbone per i forni fosse necessario, quanti treni occorrevano per deportare gli ebrei di quella o questa città, quante fermate avrebbero fatto quei treni per impedire la morte prematura dei deportati, in quali stazioni sarebbero dovuti fermare per non intralciare i rifornimenti per il fronte, quanto cibo sarebbe servito alle guardie che controllavano i prigionieri dei campi, come trasportare i beni sottratti e confiscati agli ebrei, cose di questo genere. Trascorse così le sue giornate, per sette lunghi anni, fino al 1944.
Dopo la guerra scappò in America latina, grazie ad un falso passaporto italiano. Nel 1960 fu rapito dai servizi segreti israeliani. A tradirlo fu suo figlio, che si vantò delle gesta del padre per provarci con una tizia a Buenos Aires. La vita sarebbe davvero insopportabile se non fosse così ironica.

Iniziò così il suo processo.
Nel corso del dibattimento Eichmann non si mostrò mai pentito del suo operato. Nessuna pietà o rimorso sembravano trasparire dalle sue dichiarazioni. Allo stesso modo affermò con compostezza che non aveva mai odiato gli ebrei e che non aveva mai sostenuto l’idea della superiorità della razza, portando come evidenza il suo matrimonio con una donna non ariana. Tutta la sue linea difensiva si basò sulla presunta mancanza di responsabilità nel suo operato. Era un burocrate, di basso rango per giunta, al quale venivano impartiti degli ordini ai quali non aveva nessuna possibilità di opporsi. Teneva famiglia, lui. Guardate la sua foto qui a fianco. Tutto sembra meno che un sistematico massacratore. Sembra un padre di famiglia, un impiegato del catasto, un ometto un po’ mediocre e un po’ noioso. Aveva dei vicini di casa ai quali sorrideva, un figlio un po’ scemo che per rimorchiare ha appeso di fatto il padre a una corda, una moglie bruttina che tradiva con delle prostitute ecc…
Fu dichiarato colpevole da una corte militare e la sua sorte fu la stessa della maggior parte degli imputati del processo che si era tenuto a Norimberga, quindici anni prima. Dopo l’impiccagione fu cremato e le sue ceneri sparse in mare aperto, oltre i confini delle acque territoriali Israeliane.


Torniamo all’hipster e all’antropologa. Ho avuto l’occasione di parlare con loro della questione della libertà di azione umana e della responsabilità che ne consegue. Entrambe le discussioni sono state abbastanza interessanti ma ve le risparmio perché fin troppo lunghe e articolate per un articolo di un blog. Passerò direttamente alla mia posizione che è emersa da quei discorsi.

Io credo che chiedersi quanto un uomo sia libero nelle sue scelte e quindi quanto debba rimanere in capo suo la responsabilità delle loro conseguenze sia fondamentalmente inutile.
Quando ci si pone una domanda ci si deve chiedere, in concomitanza, quali siano le conseguenze delle varie risposte possibili a quella domanda. Così ho fatto in relazione a questa questione.

Dopo che Hemingway si è sparato in testa con un fucile, possiamo chiederci se egli sia responsabile della sua sorte. Potrebbe aver coscientemente rinunciato alla vita a seguito di un ragionamento ben argomentato e solido o magari le atrocità delle guerre che aveva combattuto gli avevano rubato la fiducia nella vita, magari le circostanze gli avevano negato ogni speranza fino a costringerlo a premere il grilletto. Ma dopotutto, cosa cambia?
Quando il tuo cervello è sparso per il muro alle tue spalle sei comunque morto. Che differenza credete che passi tra un morto libero e uno costretto dalla contingenza stocastica? Che cambia tra un cadavere responsabile e uno innocente?
Nulla. Sempre cadavere resta.
Lo stesso vale per il signor Adolf Heichmann. Nel momento esatto in cui la corda gli spezza l’osso del collo, sulle sue spalle e sul suo corpo che verrà poi disperso in mare ricade la responsabilità ontologica di uno dei massacri più terribili della storia umana. Ogni ebreo morto conduce alla conseguenza inevitabile della corda. Che tu sia libero o obbligato ad una certa azione, politicamente, socialmente, neurologicamente poco importa. Se non puoi evitare la conseguenza, essa porta con sé la tua responsabilità.

Hannah Arendt, una filosofa statunitense che segui e studiò il processo Heichmann dedicò a quell’uomo una definizione che finì per entrare nel gergo comune: la banalità del male. Meglio avrebbe fatto ad usarne invece un’altra: la banalità della responsabilità ontologica.

Torniamo a Minzolini, alla dimostrazione di Roma, ai black block e ai borghesucci.
Cosa c’entreranno con un criminale nazista, vi starete chiedendo, immagino.

Non ho intenzione di palare dei complotti, degli infiltrati, delle ragioni della protesta, delle ragioni della polizia, dello stato e via discorrendo. Quello che mi interessa è individuare la responsabilità dello stato delle cose.

Il servizio del TG1 riguardava i poveri lavoratori che hanno avuto le auto incendiate, i poveri negozianti con le vetrine sfasciate, i poveri bancari che domani torneranno a lavoro con le sedi rovinate e il povero parroco che si è ritrovato la porta della chiesa sfondata e un crocifisso spaccato.

Che colpa avevano tutti questi poveracci?

Uno dei maggiori successi della nostra società, nel tentativo di restare in vita e replicarsi nonostante la sua mediocrità, sta proprio nella spersonalizzazione del potere. Sembra che nessuno sia responsabile dello stato delle cose. L’1% della popolazione mondiale detiene il 50% delle risorse del pianeta. Ventitremila persone al giorno muoiono per mancanza di cibo (fanno ottomiloniquattrocentomila ogni anno, Eichmann ce ne ha messi sette di anni per seimilioni di ebrei, dilettante). Costantemente la vita degli uomini viene rubata in un tritacarne produttivo senza alcuno scopo… ma… non è colpa di nessuno.
Quell’uno percento alla fine fa i suoi interessi, le banche il loro lavoro, i soldati obbediscono agli ordini, i generali ai governi, i governi alla volontà popolare, la volontà popolare alla volontà della divina provvidenza e così via.

E invece no! A me non sta bene. Non sta bene che siano usati due pesi e due misure per Eichmann e per gli Eichmann del nostro tempo. Ogni uomo che partecipa e ha partecipato alla costruzione di questa società porta su di sé la responsabilità ontologica delle sue conseguenze.
Non solo i capi di stato, non solo le potenti famiglie di banchieri, non solo i generali che guidano le guerre d’occupazione ma ogni singolo uomo che partecipa alla società è responsabile delle sue conseguenze.

Le auto in fumo, le vetrine sfondate, i danni casuali sono come la corda che spezza il collo di Eichmann, servono a legare gli uomini alle proprie responsabilità ontologiche. Ma erano padri di famiglia. Sono onesti lavoratori. Il mondo va così. Tengono famiglia. Sono bravi ragazzi. Chissenefrega, io prego per la pioggia.
Imparate a nuotare.

23 settembre 2011

About:Blank

Dopo aver appoggiato il ginocchio sul letto, premette con più forza sul mento, mentre teneva ferma, con l’altra mano, la testa, all’altezza della fronte. La bocca si spalancò finché le labbra non si strapparono agli angoli. Ad un tratto udì uno schiocco secco. L’osso cedette. Le guance di sua madre si andavano tingendo di un rosso cupo mentre sentiva il sangue bagnargli le dita.
Guardò i suoi occhi e li trovò vuoti e acquosi, per via del Roipnol che le aveva sciolto nel vino a cena. Era come guardare uno specchio opaco.
Quando si accorse che lei respirava ancora, prese lentamente la lampada d’ottone dal comodino lì a fianco e pensò a come avrebbe potuto finire il lavoro.
La colpì con tutta la forza che aveva mirando alla fronte. La testa affondò nel cuscino assorbendo il colpo e sul cranio si aprì soltanto un piccolo taglio. Posò di nuovo la lampada e tirò il corpo della madre verso di sé in modo che la testa potesse poggiare sul comodino di noce. Colpì di nuovo con la lampada e questa volta l’osso occipitale andò in frantumi. Il rumore rimase per un attimo sospeso nell’aria e poi fu cancellato dall’eco dei colpi che seguirono.

Si accorse del sangue caldo che gli stava colando sul petto depilato quando ormai il cranio della madre era poco più che una poltiglia di ossa e carne sfilacciata. Andò allo specchio e non riuscì a vederci dentro proprio nulla. Decise di fare la doccia e mentre entrava in bagno si girò per dare un’occhiata al salotto.
The Sleeper era lì, seduto sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto. Dalla tv, che Nico non poteva vedere, proveniva la telecronaca di una qualche partita di calcio.
L’acqua lavò via in fretta il sangue dalla sua pelle. Nico lo vedeva scorrere nello scarico della doccia e respirava lentamente. Lavò accuratamente i capelli, poi prese l’asciugamano appeso al solito posto e uscì dalla vasca. Mentre si asciugava si guardò allo specchio ma l’acqua calda lo aveva appannato a tal punto che riusciva appena a distinguere i contorni del suo corpo.
Tagliò le unghie dei piedi e si strappò qualche pelo dalla sopracciglia per definire meglio i contorni. Si lavò i denti scrupolosamente e poi preparò due strisce di coca sullo specchietto che aveva usato poco prima per aggiustarsi le sopracciglia. Tirò prima con una narice, poi con l’altra.

Uscendo dal bagno si diresse verso il salotto tenendo lo sguardo fisso su The Sleeper. Aveva i capelli arruffati e se ne stava in silenzio. Si sentiva soltanto il digrignare ritmato dei suoi denti, mentre in tv, la partita era finita. Ne aveva preso il posto il video di una vecchia canzona degli Eeels. I membri del gruppo galleggiavano nell’aria immersi in uno sfondo metropolitano in bianco e nero…

…Guess whose living here
With the great undead
This paint by numbers life
Is fucking with my head once again…


The sleeper estrasse una sigaretta dalla tasca e la accese senza guardare Nico. In effetti non stava guardando proprio nulla. Lo sguardo spento era perso in qualcosa di opalescente, qualcosa che doveva esistere al di là dello schermo della televisione, dove intanto gli Eels continuavano il loro show…

… Life is good
And I feel great
'cause mother says I was
A great mistake…


Nico tornò in camera sua per vestirsi. Prese i levis freschi di lavanderia e si infilò una camicia chiara di Armani. Scelse con calma le scarpe e finì di prepararsi che il video non era ancora finito…

Novocaine for the soul
You'd better give me something
To fill the hole
Before I sputter out.

Passò di fronte alla porta del salotto. Io esco, buonanotte. The Sleeper non si mosse. La cenere della sua sigaretta cadde a terra e la televisione iniziò a trasmettere una qualche televendita.

In strada c’era Luca ad aspettarlo.
Mio dio, ma che diavolo ti è successo? Ho ucciso mia madre. Dicevo ai capelli, li hai tutti schiacciati, lì, di lato. Stiamo andando al Toqueville se non te ne ricordassi, non al bar dello sport. Dai, fai una cosa, sali in casa e datti una sistemata, io ti aspetto in macchina e intanto mi faccio mezzo grammo. Sbrigati.

Salì le scale e fece girare la chiave nella serratura. Andò dritto in bagno e si lavò di nuovo, con cura, i capelli. Si pettinò con calma. Controllò che la sua pettinatura fosse bella e notò che in effetti lo era. Uscendo dal bagno si accorse che dalla camera della madre già proveniva uno strano odore. Rientrò in bagno e prese una bomboletta di lacca. Tornò in camera della madre e senza accendere la luce spruzzò tutto il contenuto nell’ambiente. L’odore di lacca saturò l’ambiente.
Poteva vedere le minuscole goccioline di lacca danzare tra le strisce di luce che, dai lampioni, si insinuavano tra le fessure delle serrande abbassate della camera. Rimase per qualche istante a fissare queste ballerine improbabili, sospese a mezz’aria, immerse nello sfondo della camera di sua madre.
Lei giaceva sul letto. I pezzi di cranio schizzati sul muro colavano dalla carta da parati. Il comodino era coperto di una poltiglia densa e il letto era macchiato in più punti. Nico guardava, ma non vedeva altro che quelle ballerine sospese. Pensò che erano belle e gli venne voglia di tirare altra coca.
Andò al bagno, prese lo specchio e preparò altre due strisce. Prima una narice, poi l’altra. Passò di fronte alla porta del salotto. The Sleeper non si era mosso. La televisione trasmetteva la pubblicità di uno shampoo al kiwi. Uscì, tirandosi dietro la porta di casa.

L’Audi A3 di Luca era parcheggiata in doppia fila di fronte a casa sua. Luca era dentro e quando Nico si avvicinò al finestrino, non avrebbe saputo dire se Luca stesse piangendo o ridendo. Non avrebbe saputo nemmeno dire se fosse proprio Luca quello che vedeva o semplicemente il suo riflesso sul finestrino. Salì in auto. Luca accese il motore e la sua Audi sfrecciò nella notte milanese.
Nico accese la radio. Billy Corgan cantava…

… My reflection, dirty mirror
There's no connection to myself
I'm your lover, I'm your zero
I'm in the face of your dreams of glass
So save your prayers
For when we're really gonna need'em
Throw out your cares and fly…


Nico vide lo specchietto che aveva usato Luca sul cruscotto. Lo prese e preparò altra coca…

… Wanna go for a ride?

Cos’è sta merda? Boh, roba vecchia. Stasera al Q13 suona Dimitry XTC. Cosa? Stasera al Toque suona Dimitry XTC.

… Emptiness is loneliness, and loneliness is cleanliness
And cleanliness is godliness, and god is empty just like me.

Luca sintonizzò la radio su una stazione che trasmetteva musica house e tirò due strisce. Prima una narice, poi l’altra.

Arrivati in corso Como Luca parcheggiò la sua Audi in doppia fila, proprio di fianco a una Bmw Z3. Il guidatore della BMW era nell’auto, il suo viso era illuminato dallo schermo dello smartphone che stava maneggiando.
Nico e Luca scesero dall’Audi e fecero il giro della BMW. Diedero un’occhiata al proprietario. Sembrava un uomo di mezza età, ma forse era solo il riflesso azzurrognolo dello schermo del cellulare. Luca si avvicinò al finestrino chiuso. Stronzo! Vecchio di merda, che ne dici di portare via questa macchina da magnaccia e lascarci il parcheggio? Dentro l’abitacolo l’uomo non si muoveva e continuava a guardare fisso lo schermo del cellulare. Di tanto in tanto le dita scorrevano e sfioravano lo schermo.
Mi senti vecchio di merda? Sei stronzo o cosa? Luca fece un paio di passi indietro per prendere la rincorsa e colpì con la suola della scarpa di Armani la portiera della BMW. La portiera si piegò. Luca e Nico si guardarono per un istante, poi tornarono a sbirciare l’interno dell’abitacolo della BMW.
Sul volto dell’uomo per un attimo apparse un ombra di terrore, nel momento stesso in cui il telefono gli sfuggì di mano. La luce dello schermo sparì. Luca e Nico iniziarono a colpire la portiera con manate e calci.
Ad un tratto la luce riapparve all’interno dell’abitacolo. Il vetro del finestrino era incrinato e non era più possibile per loro vedere bene il volto dell’uomo. Se avessero dovuto sbilanciarsi sulla sua espressione, avrebbero detto che sembrava rinfrancato e che si stesse calmando. Teneva di nuovo con le mani il suo smartphone e i suoi occhi sembravano persi al di là dello schermo.
Luca appoggiò entrambe le mani sul vetro ormai ridotto a una ragnatela di crepe. Vaffanculo. Sciroccato del cazzo!
Lasciarono lì l’Audi, in doppia fila, e proseguirono a piedi per via Alessio di Toqueville fino al numero 13.


La musica si sentiva dalla strada ma all’entrata non c’era calca e solo un robusto buttafuori li guardava distrattamente, o forse semplicemente stava fissando qualcosa alle loro spalle.
Infilarono la porta d’ingresso e si ritrovarono in pista. Il DJ stava suonando alcuni pezzi di elettronica. Questo posto sta diventando un covo di sfigati. Cosa Luca? Questo posto non vale più un cazzo. Nico si avvicinò alla console del DJ, facendosi largo tra la gente. Cercò di vedere se conoscesse qualcuno tra le persone che stava spintonando e spostando ma tutti i loro volti si somigliavano e non gli dicevano nulla. Gli occhi vaghi e persi di quelle persone gli ricordavano vagamente quelli di sua madre nell’attimo in cui le fracassava la testa. La temperatura era al limite del soffocante, ma la musica era di suo gusto, forse, così iniziò a ballare.

Sentì un corpo di donna che lentamente si stava appoggiando al suo. Si girò. Vide una ragazza giovane e bionda che gli sorrideva. Aveva i denti scuri e lunghi, gli occhi chiari e persi a guardare qualcosa che in linea d’aria doveva trovarsi dietro la sua testa. Ciao, mi chiamo Irene. Come dici? Sono Irene. Mi stavo chiedendo se non avessi magari della coca. Ci facciamo una botta e poi torniamo qui in pista. Sei una troia vomitevole, i tuoi denti sono una visione raccapricciante. Come dici? Dai su, un paio di tiri. Lei sorrise ancora e gli mise le mani sui fianchi tirandolo a sé.
Nico si avvicinò al suo orecchio. Sei una puttana inguardabile. Mi senti? Troia del cazzo. Lei sorrise ancora senza cogliere nulla di quello che le era stato detto. Intanto guardava in uno specchio alla base della console.

A Nico venne voglia di farsi ancora un po’ di coca e la spintonò via. Cercò con lo sguardo Luca ma intorno a lui vide solo una moltitudine di alieni che si dimenavano convulsamente. I loro riflessi nello specchio si confondevano e sembravano tutti sorridere o ridere convulsamente.
Andò dritto al bagno. Aprì la porta. Entrò. La luce forte dei neon lo costrinse a socchiudere gli occhi. Il bagno era deserto e Nico trovò la cosa abbastanza strana. Si preparò due strisce sul pianale del lavandino e arrotolò una banconota. Alzò la testa e vide dallo specchio che la porta del bagno si stava aprendo. Entrò la bionda della pista da ballo, o forse era una che le somigliava. Ciao bello, lo sapevo che eri tu quello che faceva al caso mio. Lei teneva gli occhi fissi sul lavandino, dove c’era la coca preparata. Perché te ne sei andato così? Sparisci. Dai, solo un tiro, poi ce ne torniamo in pista a ballare. Senti, le cose sono due: o ti paghi la tua cazzo di coca o se vuoi la mia mi devi succhiare l’uccello. Merda. Disse lei, cercando di far sembrare un sorriso quello che era un ghigno. Si inginocchiò e fece per sbottonargli i pantaloni. Il suo corpo era ok. Ma quei denti erano veramente orribili. Nico la colpì con un pugno secco in faccia. L’osso del naso andò in pezzi. Lei cadde svenuta all’istante con il volto trasformato in una maschera di sangue. Mentre il sangue le scorreva lentamente lungo il collo fino a sporcare l’abito leggero Nico staccò l’asciugatore dal muro. Posò la banconota arrotolata che teneva in mano sul pianale, accanto alla coca, e colpì di nuovo la ragazza al volto con l’asciugatore. Il suo zigomo rientrò nel cranio e il sangue schizzò sulla camicia e sulle scarpe di Nico.
Lui sollevò di nuovo l’asciugatore. Sentì la porta del bagno aprirsi e vide dallo specchio un omuncolo basso e gracile, con un taglio di capelli orribile, entrare. Che cazzo stai facendo?
L’uomo in un attimo aveva già estratto un distintivo della polizia o qualcosa del genere. Nell’altra mano teneva una beretta calibro nove. Figlio di puttana, metti giù quel coso e allontanati.
Nico gli si scagliò addosso. Un lampo. Un boato. Cadde a terra. Sentiva il sangue scorrergli nell’orecchio e bagnargli i capelli. Sentì i suoi pensieri svanire e non faceva, dopo tutto, molta differenza. Un attimo dopo era già il nulla.

Il poliziotto bestemmiò e infilò la pistola nella fondina guardandosi intorno. Il bagno era deserto. Prese la banconota sul pianale e tiro in fretta la coca già preparata. Prima una narice, poi l’altra. Si guardò allo specchio e vide un volto qualsiasi. La porta del bagno si aprì di nuovo. Luca entrò e scavalco il corpo di Nico. Si lavò le mani e specchiandosi non avrebbe saputo dire se fosse lui quello che stava ridendo o un’altra persona.

12 settembre 2011

If I had the strength to...

Standing here
The old man said to me,
"Long before these crowded streets
Here stood my dreaming tree."
Below it he would sit
For hours at a time
Now progress takes away
What forever took to find
And now he's falling hard
He feels the falling dark
How he longs to be
Beneath his dreaming tree

Conquered fear to climb
A moment froze in time
When the girl who first he kissed
Promised him she'd be his
Remembered mother's words
There beneath the tree
"No matter what the world
You'll always be my baby."
"Mommy come quick,
The dreaming tree has died."
The air is growing thick
A fear he cannot hide
The dreaming tree has died

Oh, have you no pity?
This thing I do
I do not deny it
All through this smile
As crooked as danger
I do not deny
I know in my mind
I would leave you now
If I had the strength to
I would leave you up
To your own devices
Will you not talk?
Can you take pity?
I don't ask much
But won't you speak, please?

From the start
She knew she had it made
Easy up 'til then
For sure she'd make the grade
Adorers came in hordes
To lay down in her wake
Gave it all she had
But treasures slowly fade
Now she's falling hard
Feels the fall of dark
How did this fall apart?
She drinks to fill it up
A smile of sweetest flowers
Wilted so and soured
Black tears stain the cheeks
That once were so admired
She thinks when she was small
There on her father's knee
How he had promised her,
"You'll always be my baby."
"Daddy come quick,
The dreaming tree has died
I can't find my way home
There is no place to hide
The dreaming tree has died."

Oh, if I had the strength to
I would leave you up
To your own devices
Will you not talk?
Can you take pity?
I don't ask much
But won't you speak, please?


3 settembre 2011

Il fascino del dubbio.


Per lungo tempo mi sono considerato in qualche modo uno scettico. Alla fine si ha sempre ragione ad esserlo perché è una posizione muta. Quando si tace è difficile essere confutati, tocca agli altri rispondere, è chi ci circonda ad essere nella posizione scomoda.
Chi può sostenere veramente lo sguardo della sfinge?

Come per altre questioni, ho cambiato radicalmente il mio rapporto col dubbio nel corso del tempo. Guardandoci indietro si ha l’occasione di vedere, nelle pagine di un diario, fosse anche quello sbiadito della memoria, quanto di noi abbiamo perso. Con la giusta dose di tempo e esperienza è possibile che di quello che eravamo in un istante passato non sia rimasto nulla. E’ un po’ come morire, un cambiamento della nostra manifestazione.

-Ma tu, dimmi, non hai paura di morire?
-Si. Ma sono morto così tante volte che ormai ci ho fatto l’abitudine.
Era una vecchia pagina di diario, una delle poche che ancora riesco a rileggere senza imbarazzo o vergogna.

Oggi non posso più dirmi scettico, al contrario, di fronte agli uomini dubbiosi mi sento vagamente a disagio. Un disagio empatico che è rifiuto della vigliaccheria. Il dubbio è del vigliacco.
Esitare, interrogarsi, attendere anche quando sappiamo, per la semplice ragione che il nostro sapere non può essere assoluto, oggi mi sembra un basso trucco.
Il dubbio può solo essere universale. Dal momento che si accetta la possibilità del dubbio in una questione lo si espande istantaneamente su tutto il conoscibile. Basta un passo nell’agnosticismo e giù per le rapide del dubbio fino al non poter nemmeno affermare l’esistenza delle proprie mani.

Come è possibile esistere nel dubbio?

La risposta è semplice: non si può. Il dubbio è l’impossibilità di scegliere, di agire. E’ la negazione stessa dello strappo esistenziale. Per questo è elegante, è di là, dall’altra parte della vita.
Credo che sia questa mia mancanza di eleganza presente che mi rende malinconico nel rileggermi ai tempi del dubbio.
Se la malinconia è una sorta di noia ricercata, il sentimento di non appartenere al mondo, che cosa può suscitarla meglio dell’eleganza della negazione della possibilità?
Diciamocelo, dal momento che agiamo, siamo tutti delle creature pietose, scarafaggi ciechi che si dimenano, il dubbio invece è la fine del trauma.

Nello scetticismo c’è la fine di ogni civiltà, una nostalgia nobile per la barbarie. Il dubbio risiede nello spazio destinato alla volontà di potenza.
Che lo abbia rinnegato poco conta, perché ho come l’impressione che il suo fascino mi perseguiti.
Come si può resistere all’estetica di un così sincero desiderio di autodistruzione e rovina?
Possiamo veramente negarci l’irrequietezza dell’empasse?
L’attimo prima, l’esitazione, l’indecisione, la ribellione all’esistenza e alla possibilità.

25 luglio 2011

La lettera.

Stava lì sul tavolo, col francobollo, il timbro postale e tutto il resto. Sedetti e notai il mio nome sopra l’indirizzo di casa mia, niente mittente. A quell’ora di notte potevo scegliere se dedicarmi a lei o a qualcun altro dei miei romanzi notturni.
Quando dico notturni, intendo quei romanzi che parlano della notte, quella vera, l’unico argomento appena interessante che si possa trovare al confine con l’apatia del caldo estivo. Io li amo quei romanzi. Il punto è che odio i loro autori. Céline è troppo impotente, McCarthy troppo americano, Cioran troppo bravo a scrivere dei miei pensieri, Caraco troppo una brutta copia di tutti gli altri.
Strappai la busta , saranno state dieci pagine scritte in corsivo fitto, inutile anche provarci. Accesi una sigaretta e girai i fogli per vedere chi avesse avuto il coraggio di scrivere così tanto.
Doveva essere qualcuno che non mi conosceva affatto, un estraneo, altrimenti avrebbe dovuto sapere che non avrei mai trovato la voglia di leggere tutto quello spreco di inchiostro.
Niente firma, tanto meglio. Tempo sprecato il suo. Tempo sprecato in generale. Tre tiri lenti e lasciai ricadere i fogli sulla scrivania. Se solo la mia chitarra non fosse stata nell’altra stanza avrei potuto pure suonare per un po’.
La sigaretta si consumava lentamente tra le dita, aspettai che smettesse di brillare, con la cenere caduta a terra e tutto. Tornai al tavolo con la chitarra in mano e suonai il peggior preludio di Bach degli ultimi vent’anni. Tedeschi di merda.
Dovevo aver dimenticato, per il caldo, il motivo per il quale suonavo sempre meno, dopo aver speso decine, che dico, centinaia di ore su quella chitarra: non ne valeva la pena. Tempo sprecato. Non avrei sopportato di dover sentirmi ancora suonare. Ritornai da lei.

Caro C.
tu odi tuo fratello dal profondo del cuore. Questo è un sentimento veramente vile.

Iniziava proprio così: tu odi tuo fratello dal profondo del cuore. Questo è un sentimento veramente vile. Svelato l’arcano. Doveva essere proprio lui il mittente, mio fratello. Inutile firmarsi quando la monotonia dei silenzi accumulati negli anni ti lega indissolubilmente a qualcuno. Il rancore non è come l’amore, che può essere universale. Il rancore ha sempre un volto. Piuttosto che chiamarmi aveva voluto scrivermi, che vigliacco, era una cosa da lui. Dieci anni di silenzio e cosa cercava ora con quella lettera? Nemmeno lui era così ottuso da farsi passare per la mente l’idea di una riconciliazione. Accesi un’altra sigaretta e gettai il secondo pacchetto della giornata, il terzo era a una distanza incolmabile, sul tavolo della cucina. Sapevo che sarei andato a prenderlo entro breve. C’è una sola cosa che batte l’apatia: la nicotina.

Non ti buttare giù, non ancora. Siamo solo all’inizio. Pensa, oltre a tuo fratello, a quanti altri hai calpestato e fatto soffrire nel corso della tua vita. La tua famiglia, le persone che ti hanno amato, M.
Te la ricordi M.? Ricordi quando ti urlò in lacrime “Mi hai rovinato la vita”? Era l’urlo di tanti, più di quanti tu stesso possa immaginare. “La nostra felicità ha un prezzo: la felicità degli altri”, parole tue. “La strada per la felicità è lastricata delle teste mozzate delle persone che ci camminano accanto. Per questo non mi fido di chi vuole essere felice. Un giorno o l’altro una di quelle teste potrebbe essere la mia. La felicità, alla fine, conta poco. Essere felice, in fondo, non mi interessa nemmeno. In fondo c’è solo la notte”. Te le ricordi queste parole? Guardati allo specchio, ora.


Ecco cosa voleva mio fratello. Farmi soffrire. Certo che mi ricordavo M., anche se non sapevo se l’avessi mai amata. Di sicuro non l’avevo mai capita fino in fondo. Ricordavo le urla, gli insulti, il suo pianto disperato. Mi hai rovinato la vita!
Ora M. ha i capelli lisci e biondi, allora li aveva ricci e scuri. Ha quindici anni in più, gli occhi un po’ più tristi e una figlia di otto anni che le somiglia in maniera indecente. Forse era vero che le avevo rovinato la vita. Me la immaginavo a partorire sua figlia per rivalsa, per vendetta, per farla soffrire come aveva fatto lei, per replicare il suo modello, perché venisse a questo mondo che mal comune è mezzo gaudio. La troia!
Ecco cosa si ottiene ad aprirsi a un fratello. Dopo dieci anni di rancori covati nel silenzio, vi scriverà una lettera col solo intento di farvi soffrire, armato di quelle confidenze. Mi trascinai fino al tavolo della cucina e mentre mi accendevo una sigaretta dal pacchetto nuovo mi affacciai alla finestra. Il caldo appiattiva la strada in uno stagno di solitudine e sopra, la notte.

Ci sei riuscito? No vero? Mi chiedo infatti come potresti…

Le pagine seguenti erano l’elenco più accurato, freddo e meticoloso delle vergogne di tutta una vita che avessi mai visto. Tutti i miei tradimenti, le bassezze, le mediocrità, i fallimenti ripetuti, le insicurezze, i respiri affannosi, le fughe vigliacche e i pianti strozzati nelle lunghe ore notturne. Un lama precisa che tagliava la mia vita in mille brandelli, uno più meschino dell’altro. Sangue dappertutto. Era veramente troppo, anche per me. La rabbia mi assalì cieca. Quel bastardo! Al posto di vivere la sua vita, per anni aveva soltanto osservato la mia. Aveva annotato tutto, gli eventi, le reazioni, gli sguardi, persino i pensieri. E ora, dopo dieci anni, mi serviva le mie budella fredde su un piatto d’argento. Come si può arrivare ad odiare qualcuno a tal punto? Con che coraggio si può giudicare così aspramente un uomo? Accesi una sigaretta cercando di calmarmi. Quasi non tirai nemmeno. La lasciai morire lentamente nel posacenere mendicando da quegli istanti quel coraggio che mi sarebbe servito per finire di leggere.

Siamo arrivati al piatto forte, alla portata principale. L. Almeno per lei riesci a piangere un po’? Mi ricordo quando mi parlasti di lei, di come avesse cambiato la tua vita in un istante. Quando tremante raccontavi del sesso sotto la pioggia fresca di fine estate, della tua vita segreta fatta di corse notturne in auto e di risvegli appannati di eroina e del suo profumo. “La tua tempesta perfetta”. Erano menzogne: lei era onesta, tu sei solo un vigliacco.

Mi sentivo soffocare, presi una sigaretta dal pacchetto ma si spezzò tra le mie dita, così rinunciai all’idea di fumare, per un minuto. L’ennesima sigaretta iniziò a bruciare tra le mie labbra e il fumo che mi entrava negli occhi almeno mi impediva di continuare a leggere. Per impedirmi di pensare invece sarebbe servito ben altro, così pensavo. Pensavo e non la smettevo.
L. era bellissima. Io non l’avevo mai amata. Avevo amato si, ma non lei. Avevo, in fondo, amato soltanto la sua immagine, in una parola: me stesso. Ero arrivato a un passo dallo spezzarmi in quell’autunno e in un certo senso spezzato già lo ero. Diviso in due perché a vivere due vite si perde una parte di se stessi. Capire cosa sia vivere per due non è facile. Significa rinunciare al sonno, per prima cosa, poi alla propria consapevolezza, al proprio equilibrio e infine alla propria sanità mentale. Non esiste un MrHide sano di mente. Il mio, di MrHide, era davvero grottesco, devo ammettere.
Eppure mi piaceva. Se guardare allo specchio il mio pigro Dr Jeckyll mi deprimeva, in quelle notti, quando MrHide sorgeva dal lato oscuro della luna era un piacere. Narciso che si specchia in una palude scura come un pozzo vuoto, come la notte. Amavo lui, non L.

Ti ricordi l’ultima volta che l’hai vista? Ti aiuto io se vuoi. Era la notte tra la festa di Tutti i Santi e il giorno della celebrazione dei morti. Una telefonata, tu che rispondi annoiato: ok, va bene, passo a casa tua. Ci vediamo sul tardi, dopo le due.
In quella casa, quella notte, trovasti due biglietti per il Venezuela, per volare al di là della notte e quegli occhi che ti guardavano. Quegli occhi erano stati la causa di tutto. Quegli occhi avevano fatto nascere il tuo MrHide, lo avevano acceso, e l’avevano amato. Le stesse due stelle verdi che ti inchiodavano al muro, circondate da quel viso gonfio e spaccato dai tuo pugni. “Non mi fai paura”. Come è stato guardare negli occhi di chi, anche a un passo dalla notte, non trema?

Io tremavo. Porco dio se tremavo. I fogli caddero e prima di ritornare coi ricordi a quella notte sentivo di dover fumare ancora, anche se la gola faceva male e a stento riuscivo a respirare mentre soffocavo nel pianto. L’accendino vomitò un’altra fiammata, il fumo rimase sospeso a mezz’aria, pesante come un’ombra cupa. Quella notte stracciai il mio biglietto. Se tu non parti, neanche io parto. Sarò un’altra. Staro qui, con te. Il fatto è che io non volevo un’altra. Volevo quegli occhi, volevo la mia doppia vita, volevo me stesso e vaffanculo il resto. Si, vaffanculo anche lei. Quella che voleva diventare una commessa o una segretaria o lo sa solo dio cosa e vivere in un paesino di provincia. Se c’era una cosa che non avrei mai potuto sopportare, la cosa della quale non ammettevo nemmeno la possibilità, era il vederla tornare a casa con gli occhi bassi, dopo dieci anni di lavoro e di mediocrità. La mia mediocrità. Io amavo solo me, il me creato da quegli occhi, da quel corpo, da quella donna. Da chi attraversava tre frontiere carica di eroina come un animale, occhiali da sole sul naso e trentotto millimetri sotto il gilet. Così per sempre la volevo, e perderla era l’unico modo per averla per sempre. Per sempre quelle notti bagnate di sesso e poi giù, con l’ago nelle vene e correre veloci verso la notte, per sempre mia. La mia tempesta perfetta. Uscendo da casa sua sentii le sue ultime parole per me: se non possiamo bruciare insieme, allora, brucerò da sola.

Era una citazione di un libro che non avevo ancora letto, ironia della sorte lo lessi quando era già troppo tardi. La differenza tra i libri e la vita è che i primi si amano e ti permettono di vivere, la seconda si odia e ti uccide.
Così L. bruciò. L’indomani volò sopra l’oceano e fu arrestata nove mesi dopo negli Stati Uniti. In attesa del processo in cui rischiava ventidue anni, si taglio la gola con un piatto rotto e morì dissanguata nella sua cella, nella prigione federale della città di Boston.

La disperazione è così, è staccarsi tutto a un tratto dal mondo e precipitare all’infinito in un istante.

Non avevo mai detto una sola parola di L. a mio fratello. Girai di nuovo i fogli e quel vuoto alla fine dell’ultima pagina era come uno specchio per la mia anima. Chi? Se non lui, chi?
Rilessi tutto e mi resi conto che nessuno poteva sapere così accuratamente tutto ciò che era successo nella mia vita. Un nemico senza volto si materializzò nel buio che vegliava fuori dalle mie finestre. L’accendino brillò ancora, i polmoni si strinsero.
Qualcuno mi conosceva tanto a fondo e mi odiava così sinceramente e non avevo idea di chi potesse essere. Rilessi ancora da capo e ogni riga urlava il suo disprezzo, ogni pagina trasudava odio, ogni frase era affilata per ferire, per uccidere. Chi?
Pensai a lungo a una risposta plausibile ma per quanto mi sforzassi mi perdevo in un labirinto di supposizioni folli e di ipotesi insensate. Il mio nemico era invisibile, vuoto, un niente fatto di odio. Odio nei miei confronti. Mi sentivo indifeso, minacciato, inerme, in balia di tanto disprezzo. Il cuore batteva come se stesse per scoppiare, le mani tremanti. Chi?

Volevo urlare ma la voce si strozzò in gola. L’unica cosa che volevo era uccidere quel nemico invisibile, l’odio si combatte con l’odio! Presi tutti i fogli e stracciai la lettera in mille pezzi, il mio urlo uscì dal petto come il sangue da una ferita viva. Muori! Urlai, un attimo prima di svegliarmi.

16 giugno 2011

I hope you choke.

Suck and SUCK!

Due anni or sono si è scoperto che il governo greco aveva accumulato e occultato un deficit pari al quindici percento del pil, politica meglio identificabile come "mossa Craxi". Con quei soldi il governo greco si era comprato il consenso del suo popolo.
Quello stesso popolo che lo ha defenestrato quando i buoi erano purtroppo già scappati dal recinto.
E' da quel lontano 2009 che si sente parlare di default greco o di ristrutturazione del debito. Ad oggi non abbiamo avuto né l'una né l'altra cosa. Il perché si nasconde dietro la solita domanda di Medea: cui prodest?

Fat little parasite.

Due terzi di quel denaro era stato prestato a quel governo vergognoso da banche francesi e tedesche. In caso di default avrebbero perso tutti i loro soldi, in caso di ristrutturazione circa il 20% del loro capitale. Senza banche non si governa, si sà.
La generosa Merkel e il caritatevole Sarkozy sono così corsi immediatamente a dichiarare che, in base ai principi della solidarietà europea e della mutua responsabilità ovviamente, non sarebbe stato possibile abbandonare i poveri risparmiatori greci (noti azionisti di maggioranza delle banche francesi e tedesche) nell'oceano di una ristrutturazione del debito pubblico greco. Grazie alla loro influenza, la Francia e la Germania hanno fatto ottenere un finanziamento di centocinquanta miliardi di euro, presi in parte dalla casse della comunità europea e in parte da quelle del FMI, al nuovo governo di Papandreou in cambio della promessa di una manovra di lacrime e sangue per risanare i conti pubblici.
Alla compassionevole carità franco-tedesca è sfuggito però il fatto che un ulteriore prestito sarebbe stato sostenibile solo se il suo tasso fosse stato legato al tasso di crescita greco. Questa sfortunata dimenticanza portò questi centocinquanta miliardi di euro ad essere prestati ad un tasso maggiore di cinque punti rispetto al tasso medio europeo. Quando estrarre sangue da una rapa è una competenza specifica.

Taken all I can taken all I can, we can take. Taken all you can taken you can, we can take.

Grazie a quella mirabile finanziaria la Grecia ha perso il 6% del pil cadendo nella più profonda recessione del dopoguerra. Il debito pubblico aggravato dagli interessi sul nuovo prestito è aumentato anziché diminuire.
Capirete come la gente greca abbia stentato a capire le ragioni di una tale illuminata politica economica. Grazie a dio la polizia non ha esitato a spiegare pacatamente le regioni solidaristiche che stavano dietro a tali scelte, con manganelli e proiettili di gomma.

Hope this is what you wanted.
Hope this is what you had in mind.
Cuz this is what you're getting.


















Take what you wanted and go.

Arriviamo ai giorni nostri. In questi due anni le banche tedesche e francesi hanno visto rientrare parte dei loro capitali, termineranno le operazioni di rientro nel 2013, appena prima dell'entrata in vigore del nuovo regolamento europeo per la gestione delle crisi finanziarie degli stati membri. Il precedente tentativo di introdurre un regolamento simile era stato affondato in commissione...immaginate da chi? I casi della vita vogliono anche che il regolamento entrerà in vigore poco dopo le elezioni politiche tedesche, nelle quali la caritatevole Merkel spera di raccogliere i frutti del suo seminato.

Got nothing left to give to you.

La Grecia si è ritrovata, in sostanza, nell'impossibilità di fallire o ristrutturare ora, ma con la certezza di fallire nel 2013. I compassionevoli speculatori non si sono fatti pregare per sedersi al banchetto. Ad oggi i titoli pubblici decennali greci sono contrattati ad un tasso di quindici punti superiore alla madia europea, il rating di solvibilità di questi titoli ha subito tredici "deranking" negli ultimi mesi. In queste condizioni ci si è accorti che non sarebbe stato nemmeno possibile arrivare al 2013 così l'asse franco-tedesco ha deciso di somministrare un'altra dose di morfina al malato greco: altri ottanta miliardi di euro dal fondo monetario internazionale e una nuova manovra da trenta miliardi da varare per il governo Papandreou (sempre se non verrà appeso a testa in giù prima firmare l'atto).
Pare che anche questa volta i greci non abbiano preso bene la notizia, incredibile quanto siano ottusi di fronte alla solidarietà...














































Temo che gli sviluppi di questa situazione siano fin troppo scontati. Nel frattempo...

...I hope, I hope, I hope you choke.




6 maggio 2011

Vanity fair.

"Ammettiamo che ci fosse qualcuno in ascolto e che tu stanotte morissi?
Mi sentirebbe morire.
Niente ultime parole?
Anche le ultime sono solo parole.
A me lo puoi dire, paradigma della tua stessa funesta genesi interpretato da una fiamma in una campana di vetro.
Direi che non sono stato infelice.
Non possiedi nulla.
Forse gli ultimi saranno i primi.
Tu ci credi?
No.
A che cosa credi?
Credo che gli ultimi e i primi soffrono alla stesso modo. Pari passu.
Allo stesso modo?
Non è solo nelle tenebre della notte che tutte le anime sono un'anima sola.
Di cosa ti pentiresti?
Di niente.
Di niente?
Di una cosa. Ho parlato con amarezza della mia vita e detto che mi sarei battuto contro l'infamia dell'oblio e della sua mostruosa assenza di volto e che in quel vuoto avrei eretto una stele dove tutti avrebbero letto il mio nome. Una vanità che ora abiuro in toto."


Suttre
Cormac McCarthy