Era il giorno di Natale a Phnom Penh. Mentre i miei compagni
di viaggio, sia quelli caduti nella storia, sia quelli rimasti fuori dalla
porta, erano impegnati in un’escursione, mi preparavo a fare un giro in città.
Fermo un Tuk Tuk (diabolico mezzo di trasporto formato da
una lambretta attaccata a un cassone coperto deve si siede il passeggero) e
l’autista mi indica un depliant con le attrazioni turistiche della città.
Scorro velocemente e scelgo la più natalizia delle opzioni, S-21 and Killing
Fields, con tanto di immagine di una fossa comune con ossa e teschi di plastica
dentro. Salgo sul trabiccolo e col mio improbabile pilota iniziamo ad avviarci
verso i quartieri meridionali della città.
Dopo una trentina di minuti di traffico infernale la mia guida si ferma al lato della strada e sorride. Io gli chiedo se siamo arrivati, in inglese. Lui sorride. E’ qui il museo Tuol Sleng? Lui sorride. Siamo arrivati all’ S-21? Lui sorride. Gli do un dollaro e scendo, certo di essere stato fregato e portato in un punto random della città. Guardandomi intorno, non vedevo nessun edificio che attirasse la mia attenzione, solo un gran affannarsi di gente che spostava cose, contrattava per strada, mendicava e via discorrendo.
Tanto valeva farsi due passi, giro un angolo e vedo dei
frutti verdi dal diametro di una quarantina di centimetri con la scorza piena
di punte e incuriosito mi avvicino. Faccio per chiedere cosa siano mai ma sento
qualcosa che mi urta alle spalle. Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di
fronte un Agent Orange di prima generazione. Il fatto è che allora, il giorno
di Natale, non avevo ancora idea di cosa fosse un Agent Orange di prima
generazione, come probabilmente non ne avete idea voi ora. Mi tocca quindi
ridescrivere la scena.
Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di fronte un tipico
zombi della migliore tradizione romeriana. Viso scarnificato, cieco (dove
avrebbero dovuto esserci gli occhi aveva dei bubboni di pelle e carne), al
posto del braccio sinistro un moncherino lungo un palmo e col braccio destro
che terminava con un foglietto bisunto con su scritto “I’m hungry”.
Istintivamente gli rifilo uno spintone. Il poveraccio inciampa su una cassa e
cade, giusto in tempo per farmi sentire contemporaneamente un imbecille e
l’uomo più malvagio sulla faccia della terra. Mentre si dimena provo ad
aiutarlo a rialzarsi, tirandolo per l’unico braccio, e una volta in piedi gli
infilo nella mano che teneva il biglietto un paio di dollari, per scusarmi
della mia idiozia. Grave errore! Mi rendo conto che la piazzetta è piena di
altri zombi, che appena fiutato l’odore del sangue verde firmato George
Washington iniziano a inseguirmi, chi zoppicando, chi strisciando, chi
spingendo il carretto su cui poggiavano i suoi moncherini, chi addirittura
camminando su entrambe le gambe, merce rara in quella piazzetta, in
quell’angolo di mondo. Ne schivo un paio, ne driblo un terzo e mi rendo conto
che la biglietteria del museo Tuol Sleng (vecchio nome della scuola che poi fu
ribattezzata S-21 durante il regime dei khmer rossi) è lì a due passi. Lancio
tre dollari al bigliettaio ed entro, rendendomi conto velocemente che quei tre
dollari sono un muro invalicabile per tutti i miei inseguitori.
Ah dimenticavo, Agent Orange di prima generazione è il nome
con il quale si identificano i figli delle madri incinte ai tempi della guerra
del Vietnam (che interessò anche una fetta rilevante della Cambogia, del Laos e
della Thailandia) esposte alle sostanze chimiche utilizzate per il
disboscamento della giungla asiatica. Agent Orange era il nome che gli
americani diedero a quell’agente chimico. God bless America.
Mi guardo intorno e vedo grossomodo questo scorcio qui a
fianco. Mi sorprende a volte rendermi conto della mia stupidità: chissà cosa mi
aspettavo?! L’edificio in cui furono torturate e uccise venticinquemila persone
non era molto diverso da quelli che avevo visto, tutto intorno, nei quartieri
meridionali. Miseria nella miseria, niente di speciale. In fin dei conti era
stato una scuola prima, ed era un museo ora. In mezzo, l’inferno.
La prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato
questo cartello. Regole semplici. Edificio semplice. Inferno semplice.
A camminare tra le stanze dell’S-21 ci si rende conto
immediatamente di come non sia difficile distruggere ogni umanità. Basta poco:
qualche vasca, cavi elettrici, qualche catenaccio, bastoni di bambù e il gioco
è fatto. Di venticinquemila uomini rimangono solo i nomi su un cartellone e le
foto su di un altro, più le sette tombe degli ultimi uomini uccisi nella
prigione. Furono uccisi mentre i carri armati vietnamiti entravano in città, a
prova di come i regimi abbiano preoccupanti analogie con gli esseri viventi.
Non importa se il tuo corpo sia destinato a smettere di vivere fra dieci
minuti, le sue cellule continueranno a fare il loro lavoro fino all’ultimo
momento, fino all’ultimo respiro.
Mentre pensavo a queste e altre stupidaggini noto un
banchetto con una sedia, del materiale cartaceo sopra e questo uomo lì dietro. Di
fronte a lui qualche turista curioso e due militari. Mi avvicino pure io, al
che, uno dei militari mi fa: se mi dai cinque dollari puoi farti una foto con
lui, indicando il vecchio. Gli rispondo che non ho idea del perché dovrei farmi
una foto con quell’uomo e vengo a sapere che è uno sette superstiti dell’S-21,
uno degli ultimi quattro ancora in vita e sta presentando un libro di memorie. Quattro
su venticinquemila. Un miracolato in pratica. Anche se, a dirla tutta, sarai
pure scampato all’inferno, ma non sei scampato a essere trattato come un soprammobile
per le foto dei turisti. Quando dice merda. Chiedo al militare se posso
scambiarci due parole, mi risponde di si, però dopo, compragli il libro, hai
capito? Si.
Ho quattro lunghi passi da fare. E’ tutto il tempo che ho
per pensare a qualcosa di non enormemente inadatto, banale, fuori luogo e goffo
da dire a uno che è scampato all’inferno. Buongiorno…
Il signor Bou Meng è un vecchietto tranquillo, parla un
inglese stentato è mi tratta gentilmente (sarà abituato a essere un’attrazione vivente per i turisti o
qualcosa del genere).
La prima cosa che mi viene da chiedergli è: come è potuto
succedere?
Non lo sa. Sa solo la sua storia e quella mi racconta. In
sostanza lui era un pittore, aveva imparato a dipingere presso un monastero
buddista e aveva aperto un negozietto di tele. Durante la guerra civile, con sua moglie, si era unito ai Khmer Rossi nella giungla, rispondendo all'appello del suo re deposto dal colpo di stato del filostatunitense Lan Nol . Dopo la vittoria dei khmer rossi, nel ’75, aveva lavorato per la propaganda del regime come
disegnatore per poi ricoprire altri ruoli di manovalanza, finché un giorno era
stato chiamato per un presunto trasferimento ad altri incarichi e si era
ritrovato prigioniero insieme a sua moglie nell’S-21, accusato di avere
rapporti con associazioni di cui non conosceva nemmeno l’esistenza come CIA e
KGB. Il giorno che furono imprigionati fu l’ultimo in cui vide sua moglie
(torturata e uccisa nella prigione).
Non si è soffermato molto su quello che gli fecero in
prigione, ma avendo visitato quelle stanze poco prima avevo almeno una vaga idea. Mi
disse solo che stava per morire di fame e di tortura, quando un giorno fu
chiamato dal vicedirettore della prigione insieme ad altri quattro prigionieri.
C’erano da disegnare dei ritratti di Pol Pot, e volevano scegliere chi fosse il
pittore più bravo per assegnargli il compito. Dipinsero. Il suo ritratto fu
quello che piacque di più a Duch, nome di guerra del direttore della prigione. Gli
altri quattro pittori furono uccisi con un colpo alla testa. Il tempo che
impiegò per dipingere ventuno volte il Fratello numero Uno bastò all’esercito
vietnamita per liberare la Cambogia. I
carri armati entrarono a Phnom Pehn il 9 gennaio 1979, mentre lui era ancora
vivo.
Il resto della storia trattava del periodo successivo alla
caduta del regime, del risveglio da un incubo, delle giustizie sommarie, dei
khmer rossi bruciati vivi per le strade dalla folla e poi della fine delle
ostilità.
Questa è la parte che più mi ha colpito, la parte che può
aiutare, chi non è mai stato in questo paese, a capirne la condizione odierna.
In sostanza, vittime, carnefici e martiri si sono trovati a
vivere fianco a fianco di punto in bianco, svestite le divise, l’esercito di
bambini (dai dieci ai venti anni) che aveva distrutto un paese si mescolò alla
popolazione e vive ancora oggi così, per le strade delle città, agli angoli delle
vie, nei negozi e nei villaggi agricoli cercando di nascondere il proprio passato.
Il processo internazionale per crimini contro l’umanità che riguarda
i khmer rossi è iniziato solo l’anno scorso. Ha soltanto cinque imputati (le più alte
cariche del partito, incluso Duch), tutti gli altri khmer sfuggiti alla giustizia
sommaria della popolazione vivono ancora oggi a piede libero in Cambogia.
Mi ci è voluto un po’ per trovare il coraggio di fare questa
domanda ma alla fine ce l’ho fatta: come fate ad andare avanti a fianco a fianco
coi vostri carnefici sapendo perfettamente che non ci sarà mai giustizia per voi?
La risposta è stata assai semplice: non ne possiamo più di combattere,
di soffrire, di morire e di veder morire i nostri cari
Poco dopo la liberazione da parte del Vietnam (questo l’ho scoperto
leggendo il suo libro) Bou Meng si è trovato a vivere a non più di trecento metri
da Duch. L’uomo che gli aveva ucciso la moglie e che lo aveva spinto a un passo
dalla morte. Nel libro racconta di come ogni notte pensava a come avrebbe
potuto vendicarsi, a come avrebbe potuto ucciderlo, finché non ebbe realizzato
che era così stufo del sangue e dell’inferno, che avrebbe abbandonato l’idea
della vendetta pur di non vivere altra violenza.
Così è la
Cambogia, un paese che ha rinunciato alla vendetta per
inedia, per stanchezza, per un po’ di tranquillità dopo la tempesta.
Bou Meng però, non ha mai rinunciato a raccontare di quei
giorni, perché non se ne perda la memoria, perché in un futuro possa esserci
giustizia, anche solo nel riconoscimento delle colpe di quel regime (nessuno
dei capi dei khmer rossi si è mai assunto la responsabilità dei crimini
perpetuati dal regime, scaricando la colpa costantemente su ipotetici
superiori, sul Fratello numero Uno o sulle pressioni internazionali nello
scenario della guerra fredda) da parte del tribunale internazionale. Per questo
ha scritto il suo libro e per questo oggi io lo ricordo con questa diapositiva.
Salutandolo simbolicamente come lo salutai in quel pomeriggio a Phnom Penh:
buon natale signor Bou Meng.
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