6 febbraio 2012

Slide 4 - S21: merry Christmas Mr. Bou Meng


Era il giorno di Natale a Phnom Penh. Mentre i miei compagni di viaggio, sia quelli caduti nella storia, sia quelli rimasti fuori dalla porta, erano impegnati in un’escursione, mi preparavo a fare un giro in città.

Fermo un Tuk Tuk (diabolico mezzo di trasporto formato da una lambretta attaccata a un cassone coperto deve si siede il passeggero) e l’autista mi indica un depliant con le attrazioni turistiche della città. Scorro velocemente e scelgo la più natalizia delle opzioni, S-21 and Killing Fields, con tanto di immagine di una fossa comune con ossa e teschi di plastica dentro. Salgo sul trabiccolo e col mio improbabile pilota iniziamo ad avviarci verso i quartieri meridionali della città.

Dopo una trentina di minuti di traffico infernale la mia guida si ferma al lato della strada e sorride. Io gli chiedo se siamo arrivati, in inglese. Lui sorride. E’ qui il museo Tuol Sleng? Lui sorride. Siamo arrivati all’ S-21? Lui sorride. Gli do un dollaro e scendo, certo di essere stato fregato e portato in un punto random della città. Guardandomi intorno, non vedevo nessun edificio che attirasse la mia attenzione, solo un gran affannarsi di gente che spostava cose, contrattava per strada, mendicava e via discorrendo.

Tanto valeva farsi due passi, giro un angolo e vedo dei frutti verdi dal diametro di una quarantina di centimetri con la scorza piena di punte e incuriosito mi avvicino. Faccio per chiedere cosa siano mai ma sento qualcosa che mi urta alle spalle. Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di fronte un Agent Orange di prima generazione. Il fatto è che allora, il giorno di Natale, non avevo ancora idea di cosa fosse un Agent Orange di prima generazione, come probabilmente non ne avete idea voi ora. Mi tocca quindi ridescrivere la scena.

Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di fronte un tipico zombi della migliore tradizione romeriana. Viso scarnificato, cieco (dove avrebbero dovuto esserci gli occhi aveva dei bubboni di pelle e carne), al posto del braccio sinistro un moncherino lungo un palmo e col braccio destro che terminava con un foglietto bisunto con su scritto “I’m hungry”. Istintivamente gli rifilo uno spintone. Il poveraccio inciampa su una cassa e cade, giusto in tempo per farmi sentire contemporaneamente un imbecille e l’uomo più malvagio sulla faccia della terra. Mentre si dimena provo ad aiutarlo a rialzarsi, tirandolo per l’unico braccio, e una volta in piedi gli infilo nella mano che teneva il biglietto un paio di dollari, per scusarmi della mia idiozia. Grave errore! Mi rendo conto che la piazzetta è piena di altri zombi, che appena fiutato l’odore del sangue verde firmato George Washington iniziano a inseguirmi, chi zoppicando, chi strisciando, chi spingendo il carretto su cui poggiavano i suoi moncherini, chi addirittura camminando su entrambe le gambe, merce rara in quella piazzetta, in quell’angolo di mondo. Ne schivo un paio, ne driblo un terzo e mi rendo conto che la biglietteria del museo Tuol Sleng (vecchio nome della scuola che poi fu ribattezzata S-21 durante il regime dei khmer rossi) è lì a due passi. Lancio tre dollari al bigliettaio ed entro, rendendomi conto velocemente che quei tre dollari sono un muro invalicabile per tutti i miei inseguitori.

Ah dimenticavo, Agent Orange di prima generazione è il nome con il quale si identificano i figli delle madri incinte ai tempi della guerra del Vietnam (che interessò anche una fetta rilevante della Cambogia, del Laos e della Thailandia) esposte alle sostanze chimiche utilizzate per il disboscamento della giungla asiatica. Agent Orange era il nome che gli americani diedero a quell’agente chimico. God bless America.

Mi guardo intorno e vedo grossomodo questo scorcio qui a fianco. Mi sorprende a volte rendermi conto della mia stupidità: chissà cosa mi aspettavo?! L’edificio in cui furono torturate e uccise venticinquemila persone non era molto diverso da quelli che avevo visto, tutto intorno, nei quartieri meridionali. Miseria nella miseria, niente di speciale. In fin dei conti era stato una scuola prima, ed era un museo ora. In mezzo, l’inferno.




 

 
La prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato questo cartello. Regole semplici. Edificio semplice. Inferno semplice.
A camminare tra le stanze dell’S-21 ci si rende conto immediatamente di come non sia difficile distruggere ogni umanità. Basta poco: qualche vasca, cavi elettrici, qualche catenaccio, bastoni di bambù e il gioco è fatto. Di venticinquemila uomini rimangono solo i nomi su un cartellone e le foto su di un altro, più le sette tombe degli ultimi uomini uccisi nella prigione. Furono uccisi mentre i carri armati vietnamiti entravano in città, a prova di come i regimi abbiano preoccupanti analogie con gli esseri viventi. Non importa se il tuo corpo sia destinato a smettere di vivere fra dieci minuti, le sue cellule continueranno a fare il loro lavoro fino all’ultimo momento, fino all’ultimo respiro.






Mentre pensavo a queste e altre stupidaggini noto un banchetto con una sedia, del materiale cartaceo sopra e questo uomo lì dietro. Di fronte a lui qualche turista curioso e due militari. Mi avvicino pure io, al che, uno dei militari mi fa: se mi dai cinque dollari puoi farti una foto con lui, indicando il vecchio. Gli rispondo che non ho idea del perché dovrei farmi una foto con quell’uomo e vengo a sapere che è uno sette superstiti dell’S-21, uno degli ultimi quattro ancora in vita e sta presentando un libro di memorie. Quattro su venticinquemila. Un miracolato in pratica. Anche se, a dirla tutta, sarai pure scampato all’inferno, ma non sei scampato a essere trattato come un soprammobile per le foto dei turisti. Quando dice merda. Chiedo al militare se posso scambiarci due parole, mi risponde di si, però dopo, compragli il libro, hai capito? Si.

Ho quattro lunghi passi da fare. E’ tutto il tempo che ho per pensare a qualcosa di non enormemente inadatto, banale, fuori luogo e goffo da dire a uno che è scampato all’inferno. Buongiorno…

Il signor Bou Meng è un vecchietto tranquillo, parla un inglese stentato è mi tratta gentilmente (sarà abituato a  essere un’attrazione vivente per i turisti o qualcosa del genere).
La prima cosa che mi viene da chiedergli è: come è potuto succedere?
Non lo sa. Sa solo la sua storia e quella mi racconta. In sostanza lui era un pittore, aveva imparato a dipingere presso un monastero buddista e aveva aperto un negozietto di tele. Durante la guerra civile, con sua moglie, si era unito ai Khmer Rossi nella giungla, rispondendo all'appello del suo re deposto dal colpo di stato del filostatunitense Lan Nol . Dopo la vittoria dei khmer rossi, nel ’75, aveva lavorato per la propaganda del regime come disegnatore per poi ricoprire altri ruoli di manovalanza, finché un giorno era stato chiamato per un presunto trasferimento ad altri incarichi e si era ritrovato prigioniero insieme a sua moglie nell’S-21, accusato di avere rapporti con associazioni di cui non conosceva nemmeno l’esistenza come CIA e KGB. Il giorno che furono imprigionati fu l’ultimo in cui vide sua moglie (torturata e uccisa nella prigione).

Non si è soffermato molto su quello che gli fecero in prigione, ma avendo visitato quelle stanze poco prima avevo almeno una vaga idea. Mi disse solo che stava per morire di fame e di tortura, quando un giorno fu chiamato dal vicedirettore della prigione insieme ad altri quattro prigionieri. C’erano da disegnare dei ritratti di Pol Pot, e volevano scegliere chi fosse il pittore più bravo per assegnargli il compito. Dipinsero. Il suo ritratto fu quello che piacque di più a Duch, nome di guerra del direttore della prigione. Gli altri quattro pittori furono uccisi con un colpo alla testa. Il tempo che impiegò per dipingere ventuno volte il Fratello numero Uno bastò all’esercito vietnamita per liberare la Cambogia. I carri armati entrarono a Phnom Pehn il 9 gennaio 1979, mentre lui era ancora vivo.

Il resto della storia trattava del periodo successivo alla caduta del regime, del risveglio da un incubo, delle giustizie sommarie, dei khmer rossi bruciati vivi per le strade dalla folla e poi della fine delle ostilità.
Questa è la parte che più mi ha colpito, la parte che può aiutare, chi non è mai stato in questo paese, a capirne la condizione odierna.

In sostanza, vittime, carnefici e martiri si sono trovati a vivere fianco a fianco di punto in bianco, svestite le divise, l’esercito di bambini (dai dieci ai venti anni) che aveva distrutto un paese si mescolò alla popolazione e vive ancora oggi così, per le strade delle città, agli angoli delle vie, nei negozi e nei villaggi agricoli cercando di nascondere il proprio passato.

Il processo internazionale per crimini contro l’umanità che riguarda i khmer rossi è iniziato solo l’anno scorso. Ha soltanto cinque imputati (le più alte cariche del partito, incluso Duch), tutti gli altri khmer sfuggiti alla giustizia sommaria della popolazione vivono ancora oggi a piede libero in Cambogia.

Mi ci è voluto un po’ per trovare il coraggio di fare questa domanda ma alla fine ce l’ho fatta: come fate ad andare avanti a fianco a fianco coi vostri carnefici sapendo perfettamente che non ci sarà mai giustizia per voi?

La risposta è stata assai semplice: non ne possiamo più di combattere, di soffrire, di morire e di veder morire i nostri cari

Poco dopo la liberazione da parte del Vietnam (questo l’ho scoperto leggendo il suo libro) Bou Meng si è trovato a vivere a non più di trecento metri da Duch. L’uomo che gli aveva ucciso la moglie e che lo aveva spinto a un passo dalla morte. Nel libro racconta di come ogni notte pensava a come avrebbe potuto vendicarsi, a come avrebbe potuto ucciderlo, finché non ebbe realizzato che era così stufo del sangue e dell’inferno, che avrebbe abbandonato l’idea della vendetta pur di non vivere altra violenza.

Così è la Cambogia, un paese che ha rinunciato alla vendetta per inedia, per stanchezza, per un po’ di tranquillità dopo la tempesta.

Bou Meng però, non ha mai rinunciato a raccontare di quei giorni, perché non se ne perda la memoria, perché in un futuro possa esserci giustizia, anche solo nel riconoscimento delle colpe di quel regime (nessuno dei capi dei khmer rossi si è mai assunto la responsabilità dei crimini perpetuati dal regime, scaricando la colpa costantemente su ipotetici superiori, sul Fratello numero Uno o sulle pressioni internazionali nello scenario della guerra fredda) da parte del tribunale internazionale. Per questo ha scritto il suo libro e per questo oggi io lo ricordo con questa diapositiva. Salutandolo simbolicamente come lo salutai in quel pomeriggio a Phnom Penh: buon natale signor Bou Meng.

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