23 febbraio 2012

21 febbraio 2012

Slide 6 - 180 volts.


Chau Doc è un paese di frontiera, un posto di passaggio. A pochi kilometri c’è la frontiera tra la Cambogia e il Vietnam e li accanto passa il Mekong.
Per presentarsi, il fiume, ti fa capire immediatamente il significato più vero della parola umidità.
Quasi tutto quello che succede in città riguarda due cose: la frontiera e il fiume.
Per la frontiera ero appena passato così mi sono deciso a dare un’occhiata al fiume.

Prima di arrivare sulle sponde del Mekong passo per un mercato locale, non voglio dilungarmi troppo così vi metto un paio di immagini che forse potranno dirvi qualcosa di quel posto.




Superato il mercato cerco di procurarmi una barca. Chiedo in giro e trovo un tizio che mi presenta suo cugino (o qualcosa del genere) che accetta di darmi un passaggio lungo il delta per qualche dollaro.




In sostanza il delta del Mekong è una città galleggiante. Tutti quelli che non possono pagare le tasse sulla proprietà della terra si riversano qui, per vivere sull’acqua. Ci sono due modi di vivere, o su una palafitta o su una barca. Una barca di un paio di metri è la casa per una famiglia di quattro persone o giù di lì. Le palafitte più grandi ospitano fino a cinque o sei famiglie.




 
Per questa gente il fiume è tutto. Fornisce il cibo, è la strada su cui ci si avvia per andare a scuola e anche il posto in cui si finisce affogati durante la stagione delle piogge, quando il livello dell’acqua può crescere anche di due metri.
La mia guida improvvisata mi spiega come trent’anni fa, durante la guerra, una parte della città galleggiante sprofondò letteralmente nel fiume durante la stagione delle piogge, sotto il peso dei migliaia di profughi Cambogiani che si erano rifugiati sulle palafitte.

Mentre mi guardo intorno incuriosito mi capita di imbattermi in questa scena…




Sono pescatori, mi spiega il pescatore che mi sta accompagnando. Lui pesca con la sua barca, loro con l’elettricità. Quel coso che vedete sulla schiena del ragazzo è un generatore elettrico da centoottanta volt. I fili sono intrecciati sui bastoni che tiene in mano, quando vede un pesce li cala in acqua e il pesce muore folgorato. Non mi sembra una grande idea, faccio notare io. In effetti ogni tanto qualcuno ne muore folgorato. La mia guida ha una barca, ma che ci vuoi fare, se una barca non ce l’hai ti devi adattare. Non succede spesso, di morire folgorati col generatore, come non succede spesso che una parte della città galleggiante sprofondi nel fiume, durante la stagione delle piogge.
E così penso, che in alcuni posti “non spesso” è già qualcosa. "Non spesso" sul delta del Mekong è quasi abbastanza.

6 febbraio 2012

Slide 4 - S21: merry Christmas Mr. Bou Meng


Era il giorno di Natale a Phnom Penh. Mentre i miei compagni di viaggio, sia quelli caduti nella storia, sia quelli rimasti fuori dalla porta, erano impegnati in un’escursione, mi preparavo a fare un giro in città.

Fermo un Tuk Tuk (diabolico mezzo di trasporto formato da una lambretta attaccata a un cassone coperto deve si siede il passeggero) e l’autista mi indica un depliant con le attrazioni turistiche della città. Scorro velocemente e scelgo la più natalizia delle opzioni, S-21 and Killing Fields, con tanto di immagine di una fossa comune con ossa e teschi di plastica dentro. Salgo sul trabiccolo e col mio improbabile pilota iniziamo ad avviarci verso i quartieri meridionali della città.

Dopo una trentina di minuti di traffico infernale la mia guida si ferma al lato della strada e sorride. Io gli chiedo se siamo arrivati, in inglese. Lui sorride. E’ qui il museo Tuol Sleng? Lui sorride. Siamo arrivati all’ S-21? Lui sorride. Gli do un dollaro e scendo, certo di essere stato fregato e portato in un punto random della città. Guardandomi intorno, non vedevo nessun edificio che attirasse la mia attenzione, solo un gran affannarsi di gente che spostava cose, contrattava per strada, mendicava e via discorrendo.

Tanto valeva farsi due passi, giro un angolo e vedo dei frutti verdi dal diametro di una quarantina di centimetri con la scorza piena di punte e incuriosito mi avvicino. Faccio per chiedere cosa siano mai ma sento qualcosa che mi urta alle spalle. Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di fronte un Agent Orange di prima generazione. Il fatto è che allora, il giorno di Natale, non avevo ancora idea di cosa fosse un Agent Orange di prima generazione, come probabilmente non ne avete idea voi ora. Mi tocca quindi ridescrivere la scena.

Mi giro un po’ infastidito e mi trovo di fronte un tipico zombi della migliore tradizione romeriana. Viso scarnificato, cieco (dove avrebbero dovuto esserci gli occhi aveva dei bubboni di pelle e carne), al posto del braccio sinistro un moncherino lungo un palmo e col braccio destro che terminava con un foglietto bisunto con su scritto “I’m hungry”. Istintivamente gli rifilo uno spintone. Il poveraccio inciampa su una cassa e cade, giusto in tempo per farmi sentire contemporaneamente un imbecille e l’uomo più malvagio sulla faccia della terra. Mentre si dimena provo ad aiutarlo a rialzarsi, tirandolo per l’unico braccio, e una volta in piedi gli infilo nella mano che teneva il biglietto un paio di dollari, per scusarmi della mia idiozia. Grave errore! Mi rendo conto che la piazzetta è piena di altri zombi, che appena fiutato l’odore del sangue verde firmato George Washington iniziano a inseguirmi, chi zoppicando, chi strisciando, chi spingendo il carretto su cui poggiavano i suoi moncherini, chi addirittura camminando su entrambe le gambe, merce rara in quella piazzetta, in quell’angolo di mondo. Ne schivo un paio, ne driblo un terzo e mi rendo conto che la biglietteria del museo Tuol Sleng (vecchio nome della scuola che poi fu ribattezzata S-21 durante il regime dei khmer rossi) è lì a due passi. Lancio tre dollari al bigliettaio ed entro, rendendomi conto velocemente che quei tre dollari sono un muro invalicabile per tutti i miei inseguitori.

Ah dimenticavo, Agent Orange di prima generazione è il nome con il quale si identificano i figli delle madri incinte ai tempi della guerra del Vietnam (che interessò anche una fetta rilevante della Cambogia, del Laos e della Thailandia) esposte alle sostanze chimiche utilizzate per il disboscamento della giungla asiatica. Agent Orange era il nome che gli americani diedero a quell’agente chimico. God bless America.

Mi guardo intorno e vedo grossomodo questo scorcio qui a fianco. Mi sorprende a volte rendermi conto della mia stupidità: chissà cosa mi aspettavo?! L’edificio in cui furono torturate e uccise venticinquemila persone non era molto diverso da quelli che avevo visto, tutto intorno, nei quartieri meridionali. Miseria nella miseria, niente di speciale. In fin dei conti era stato una scuola prima, ed era un museo ora. In mezzo, l’inferno.




 

 
La prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato questo cartello. Regole semplici. Edificio semplice. Inferno semplice.
A camminare tra le stanze dell’S-21 ci si rende conto immediatamente di come non sia difficile distruggere ogni umanità. Basta poco: qualche vasca, cavi elettrici, qualche catenaccio, bastoni di bambù e il gioco è fatto. Di venticinquemila uomini rimangono solo i nomi su un cartellone e le foto su di un altro, più le sette tombe degli ultimi uomini uccisi nella prigione. Furono uccisi mentre i carri armati vietnamiti entravano in città, a prova di come i regimi abbiano preoccupanti analogie con gli esseri viventi. Non importa se il tuo corpo sia destinato a smettere di vivere fra dieci minuti, le sue cellule continueranno a fare il loro lavoro fino all’ultimo momento, fino all’ultimo respiro.






Mentre pensavo a queste e altre stupidaggini noto un banchetto con una sedia, del materiale cartaceo sopra e questo uomo lì dietro. Di fronte a lui qualche turista curioso e due militari. Mi avvicino pure io, al che, uno dei militari mi fa: se mi dai cinque dollari puoi farti una foto con lui, indicando il vecchio. Gli rispondo che non ho idea del perché dovrei farmi una foto con quell’uomo e vengo a sapere che è uno sette superstiti dell’S-21, uno degli ultimi quattro ancora in vita e sta presentando un libro di memorie. Quattro su venticinquemila. Un miracolato in pratica. Anche se, a dirla tutta, sarai pure scampato all’inferno, ma non sei scampato a essere trattato come un soprammobile per le foto dei turisti. Quando dice merda. Chiedo al militare se posso scambiarci due parole, mi risponde di si, però dopo, compragli il libro, hai capito? Si.

Ho quattro lunghi passi da fare. E’ tutto il tempo che ho per pensare a qualcosa di non enormemente inadatto, banale, fuori luogo e goffo da dire a uno che è scampato all’inferno. Buongiorno…

Il signor Bou Meng è un vecchietto tranquillo, parla un inglese stentato è mi tratta gentilmente (sarà abituato a  essere un’attrazione vivente per i turisti o qualcosa del genere).
La prima cosa che mi viene da chiedergli è: come è potuto succedere?
Non lo sa. Sa solo la sua storia e quella mi racconta. In sostanza lui era un pittore, aveva imparato a dipingere presso un monastero buddista e aveva aperto un negozietto di tele. Durante la guerra civile, con sua moglie, si era unito ai Khmer Rossi nella giungla, rispondendo all'appello del suo re deposto dal colpo di stato del filostatunitense Lan Nol . Dopo la vittoria dei khmer rossi, nel ’75, aveva lavorato per la propaganda del regime come disegnatore per poi ricoprire altri ruoli di manovalanza, finché un giorno era stato chiamato per un presunto trasferimento ad altri incarichi e si era ritrovato prigioniero insieme a sua moglie nell’S-21, accusato di avere rapporti con associazioni di cui non conosceva nemmeno l’esistenza come CIA e KGB. Il giorno che furono imprigionati fu l’ultimo in cui vide sua moglie (torturata e uccisa nella prigione).

Non si è soffermato molto su quello che gli fecero in prigione, ma avendo visitato quelle stanze poco prima avevo almeno una vaga idea. Mi disse solo che stava per morire di fame e di tortura, quando un giorno fu chiamato dal vicedirettore della prigione insieme ad altri quattro prigionieri. C’erano da disegnare dei ritratti di Pol Pot, e volevano scegliere chi fosse il pittore più bravo per assegnargli il compito. Dipinsero. Il suo ritratto fu quello che piacque di più a Duch, nome di guerra del direttore della prigione. Gli altri quattro pittori furono uccisi con un colpo alla testa. Il tempo che impiegò per dipingere ventuno volte il Fratello numero Uno bastò all’esercito vietnamita per liberare la Cambogia. I carri armati entrarono a Phnom Pehn il 9 gennaio 1979, mentre lui era ancora vivo.

Il resto della storia trattava del periodo successivo alla caduta del regime, del risveglio da un incubo, delle giustizie sommarie, dei khmer rossi bruciati vivi per le strade dalla folla e poi della fine delle ostilità.
Questa è la parte che più mi ha colpito, la parte che può aiutare, chi non è mai stato in questo paese, a capirne la condizione odierna.

In sostanza, vittime, carnefici e martiri si sono trovati a vivere fianco a fianco di punto in bianco, svestite le divise, l’esercito di bambini (dai dieci ai venti anni) che aveva distrutto un paese si mescolò alla popolazione e vive ancora oggi così, per le strade delle città, agli angoli delle vie, nei negozi e nei villaggi agricoli cercando di nascondere il proprio passato.

Il processo internazionale per crimini contro l’umanità che riguarda i khmer rossi è iniziato solo l’anno scorso. Ha soltanto cinque imputati (le più alte cariche del partito, incluso Duch), tutti gli altri khmer sfuggiti alla giustizia sommaria della popolazione vivono ancora oggi a piede libero in Cambogia.

Mi ci è voluto un po’ per trovare il coraggio di fare questa domanda ma alla fine ce l’ho fatta: come fate ad andare avanti a fianco a fianco coi vostri carnefici sapendo perfettamente che non ci sarà mai giustizia per voi?

La risposta è stata assai semplice: non ne possiamo più di combattere, di soffrire, di morire e di veder morire i nostri cari

Poco dopo la liberazione da parte del Vietnam (questo l’ho scoperto leggendo il suo libro) Bou Meng si è trovato a vivere a non più di trecento metri da Duch. L’uomo che gli aveva ucciso la moglie e che lo aveva spinto a un passo dalla morte. Nel libro racconta di come ogni notte pensava a come avrebbe potuto vendicarsi, a come avrebbe potuto ucciderlo, finché non ebbe realizzato che era così stufo del sangue e dell’inferno, che avrebbe abbandonato l’idea della vendetta pur di non vivere altra violenza.

Così è la Cambogia, un paese che ha rinunciato alla vendetta per inedia, per stanchezza, per un po’ di tranquillità dopo la tempesta.

Bou Meng però, non ha mai rinunciato a raccontare di quei giorni, perché non se ne perda la memoria, perché in un futuro possa esserci giustizia, anche solo nel riconoscimento delle colpe di quel regime (nessuno dei capi dei khmer rossi si è mai assunto la responsabilità dei crimini perpetuati dal regime, scaricando la colpa costantemente su ipotetici superiori, sul Fratello numero Uno o sulle pressioni internazionali nello scenario della guerra fredda) da parte del tribunale internazionale. Per questo ha scritto il suo libro e per questo oggi io lo ricordo con questa diapositiva. Salutandolo simbolicamente come lo salutai in quel pomeriggio a Phnom Penh: buon natale signor Bou Meng.

28 gennaio 2012

Slide 3 - Fuori dalla storia.

C’è una leggenda nella tradizione mitologica gnostica a cui sono particolarmente legato.
Pare che nella battaglia tra l’arcangelo Michele e il diavolo, le schiere degli angeli scesero in campo, chi combattendo a fianco dell’uno, chi dell’altro. Dopo la sconfitta di Lucifero, i suoi angeli furono sprofondati all’inferno, mentre le schiere di Michele ascesero con lui in paradiso.
Qui sorse un problema: c’erano stati degli angeli, chi per pigrizia, chi per paura, chi perché di cuor gentile, che non avevano partecipato alla battaglia. Non erano scesi in campo, né per l’uno, né per l’altro. Erano rimasti a guardare.
Pare però, che esitare che non sia permesso “colà dove si puote”, così questi imboscati della guerra celeste furono scagliati nel mondo e condannati ad essere uomini. Il contrappasso è servito!

La storia inizia così, con una condanna. La condanna ad agire. Se fare il primo passo nella storia è il peccato originale dell’umanità, la fonte del male e della sofferenza, chi ci ha obbligati a farlo? Pare che qui ricadiamo nel caso in cui ci tocca di “più non dimandare”.

Queste considerazioni sono così presenti nella mia esperienza che a poco a poco sono scivolate nello scontato. Eppure può succedere che, prendendo un aereo, le considerazioni scontate non facciano in tempo a rincorrerci per via della velocità di crociera e tutto ad un tratto ci ritroviamo a doverne fare a meno.


Ora vi chiederete, chi sono questi due nella foto? Sono due angeli, condannati come tutti a cadere nella storia, con la non trascurabile differenza, che quando sono arrivati nel mondo la porta della storia era già chiusa e si sono trovati sull’uscio, un po’ spaesati e un po’ interdetti.
Non te ne accorgi subito. A prima vista sembrano angeli caduti come gli altri, l’unica differenza è il passaporto. Però poi ci parli un po’ e la loro sconcertante ingenuità ti colpisce come un pensiero che non hai mai preso in considerazione.
Capita che mentre mangi un gelato si avvicina un troncone di uomo, striscia su due moncherini che chissà dove ha lasciato le gambe e doveva pesargli pure un braccio, o magari poteva cavarsela anche solo con uno: aiutatemi, ho fame!
E’ in queste occasioni che, anche senza guardare il passaporto, ti accorgi di quanto siano differenti gli angeli rimasti fuori dalla porta, rispetto a quelli che sono caduti proprio in mezzo alla storia.

J: Non è giusto!
V: Cosa?
J: Che noi possiamo mangiare il gelato e quell’uomo è ridotto in quel modo.
V: E’ un gelato terribile, probabilmente il peggiore che abbia mai mangiato nella mia vita.
J: Io non riesco nemmeno a guardarlo, come è possibile ridursi così, come si può vivere così?
V: E’ la guerra. Alcuni muoiono e ad altri va peggio.
J: Non si dovrebbero mai fare le guerre.
V: Davvero?
J: Si, sono terribili! Io sono un insegnante e cerco di insegnare ai miei alunni che fare del male agli altri è la cosa peggiore.
V: Si fa del male perché siamo obbligati a scegliere, perché dobbiamo agire, in un modo o nell’altro.
J: Non capisco.
V: Lo so, sei australiana. La storia vi ha chiuso fuori della porta.
J: Possiamo andare via, mi mette a disagio quell’uomo.
V: E’ solo un uomo come gli altri, tira a campare come tutti, gli è solo andata particolarmente male. Non ti fa nulla, al massimo, se te la vedi brutta puoi correre, dubito possa raggiungerti.
J: Sei un imbecille.
V: E’ sempre un piacere…

Aveva ragione eh, sia chiaro, sono un imbecille e non nascondo di averci preso gusto in quella discussione. Il fatto è che mi ero improvvisamente reso conto di quanto mi desse fastidio il privilegio di chi, nella caduta, ha avuto una sorte così fortunata da fermarsi fuori dalla porta della storia. In un certo senso la punizione per quegli angeli non si è mai concretizzata. Fuori dagli eventi, fuori dal dolore, fuori dalle scelte che hanno contribuito ai massacri e alle tribolazioni dei millenni.
Se nasci in Europa la storia di tutti i drammi del tempo te la senti sulle spalle, nasci in Nuova Zelanda e sono un paio di paginette in un manuale delle scuole superiori.
Ma forse è semplicemente che ci piace tanto sentirci eroi tragici. Le leggende alla fine servono solo a compiacerci.

19 gennaio 2012

Slide 2 - I'm on sale.

V: Ciao, che fai qui, tutta sola?
W: Sono in vendita.
V: Mmm. E quanto costi?
W: Diecimila.
V: Diecimila. Non ho così tanti soldi in tasca (peccato). Ci si vede (Ci si vede? Bah).
W: Dove vai?
V: Lì, mi prendo due birre e poi vado a letto, è stata una giornata lunga.
W: Aspetta!
V: Aspetta?
W: Si. Vengo anch’io.



V: Due birre, per favore.
W: Preferisco il tè.
V: Una birra e un tè caldo, per favore.

V: …
W: Non dici nulla?
V: Non saprei che dire. Se ti chiedo come mai una ragazza così bella è in vendita ai lati del mercato mi sa che divento banale.
W: Sono in vendita perché sono bella. Ma non sono una ragazza.
V: A no? Avrei detto di si.
W: Sono un uomo.
V: Balle.
W: Guarda la mia ID card, Wu Muol. E’ il mio nome. Il mio corpo è quello di una ragazza, ma sono un uomo.
V: Mmm. Come hai fatto?
W: Diventare una ragazza mi è costato ventimila dollari.
V: E’ un sacco di soldi.
W: Li guadagno in un mese o poco più, ora.
V: No, pensavo, è un sacco di soldi, solo per piacere agli altri.
W: …
V: Io credo di non fare nulla per piacere agli altri.
W: Lo so.
V: Lo sai? E come?
W: Non hai soldi.
V: Non è che non ho soldi, è che…lasciamo perdere. Quindi tu ti vendi al mercato. Per ventimila dollari al mese, o poco più?
W: Si. E tu invece? Che fai di solito?
V: Quasi niente.
W: Quasi niente.
V: Si, insomma, suono la mia chitarra, leggo, scrivo, passo le giornate a fare due chiacchiere in giro. Cose così.
W: Ah. Suoni, leggi, chiacchieri e vieni a prendere due birre a Bangkok.
V: Si, grossomodo si.
W: Come fai?
V: Come faccio cosa?
W: A vivere così.
V: E’ ironico, avrei voluto farti la stessa domanda, ma mi suonava offensiva.
W: Scusa.
V: Lascia stare, ci sono abituato, in un certo senso.
W: Altra birra?
V: Volentieri.
W: Offro io, che tu non hai soldi.
V: Non è che non ho soldi…
W: Scherzavo, non ti arrabbiare.
V: Quindi hai cambiato sesso per stare in strada.
W: Non ti va di parlare di te?
V: No.
W: Si. Gli uomini comprano di più e pagano di più.
V: Secondo te perché?
W: Perché sono più ricchi. E le mogli li scusano più facilmente, perché sono più ricchi, o almeno abbastanza ricchi per loro.
V: Glielo dici ai tuoi clienti che sei un uomo?
W: Lo vedono da sé, ad un certo punto.
V: (Dio mio, devo essere il sovrano del paese dei coglioni o qualcosa del genere!)
W: Quasi nessuno si lamenta. A chi si lamenta restituisco i soldi, ma sono pochi. Chi cerca la bellezza raramente è interessato al sesso.
V: Mmm.
W: Il sesso è un incidente, una scusa. I miei clienti non cercano il sesso, anche se facciamo sesso. Cercano la bellezza e quasi sempre il sesso è indifferente.
V: Ma tu hai dovuto cambiare sesso.
W: Non c’entra tanto il sesso, sono dovuto diventare bella.
V: Mi spiace. (Imbecille che non sei altro, seppellisciti in una fossa, cosa cazzo dici ritardato incurabile.)
W: Non preoccuparti, ci sono abituato, in un certo senso.
V: Ok. E’ stato un piacere, ora mi tocca ritornare in albergo. Ci si vede. (Ci si vede?)
W: Aspetta! Per favore. Non vuoi un’altra birra? Possiamo fare altre due chiacchiere.
V: Sono stanco, magari un’altra volta. (Un’altra volta? A Bangkok? Imbecille!)
W: Non mi va di tornare in strada.
...
V: Una birra. Poi vado.
...
W: Ti piace la città?
V: Non saprei. Cioè, si. E’ fantastica, ma è anche un inferno. Non credo potrei viverci.
W: Ci si abitua.
V: Immagino di si.
W: Sei fortunato.
V: Io? Perché?
W: Beh, puoi venire qui e poi puoi ripartire quando vuoi. Se non ti piace, pazienza, puoi salire su un aereo e addio Bangkok.
V: Beh, si. Anche tu puoi. Sei ricca (Ricca? Ricco?), un aereo ti costerà due serate (Ecco, lo vedi? Sei un coglione).
W: …
V: Mi spiace, non volevo…
W: Non ti preoccupare. Non è quello. E’ che io vorrei prendere un aereo, ma non posso.
V: Non puoi.
W: Non posso.
V: Perché?
W: Non mi va di parlarne.
V: Ok. Hai mai letto “Lo straniero”? E’ un romanzo di Camus.
W: Si.
V: (Si?) Beh, allora capirai che voglio dire con “non ci sarà mai nessun luogo che potrai chiamare casa”.
W: E’ solo un libro.
V: Alla fine non abbiamo molto altro. E’ un libro, ma è un libro bello. Non si può chiedere molto di più.
W: Si, è bello.
V: Grazie di tutto. Ora devo proprio andare, buona notte.
W: Aspetta!
V: Aspetta?
W: Si. Aspetta. Vengo con te.

15 gennaio 2012

Slide 1 - 37k.

Quando sai che sarai inchiodato su una sedia per la prossime dodici ora e su venti canali disponibili, diciannove trasmettono grandi successi di Bollywood e l'ultimo il film dei puffi, un'esplosione in volo, più che una remota possibilità è una vana speranza. Se poi stai per mangiare lasagne al pesto con gamberi cucinate da qualche indiano, beh, fuori è veramente buio.
Fa buio molto più velocemente quando si vola a mille kilometri all'ora verso il sole, con buona pace di Aristotele.
Ci si incontra frettolosamente col sole: salve, buon pomeriggio. Come va? Ed è subito buio. Ed è subito lasagne al pesto con gamberi, indiane.

Poi guardi l'uomo che ti siede accanto. Un indiano di mezza età, camicia beige e marrone, pantaloni gialli e peli sparsi sulla faccia che si salvi chi può. Non deve essere molto abituato a volare perché tiene gli occhi chiusi, la testa rincagnata nelle spalle e sta piegato in avanti che la testa quasi entra nello schermo, a Bollywood.
Tiene le mani giunte e parlotta tra sé. Probabilmente starà pregando qualche dio i cui arti superiori si numerano a paia.
E' lo stesso che un'ora prima aveva caricato centoquarantotto kili di bagagli al check in, una moglie orrenda e quattro figli urlanti.

A volte va così, che è a trentasettemila piedi di altezza che ti accorgi che sarà pure buio, ma tutto sommato poteva anche andare peggio.