1 dicembre 2010

In loving memory (l'ultimo volo).

Mario Monicelli: Viareggio 16/5/1915 - Roma 29/11/2010.

A proposito del suicidio del padre disse: « Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l'ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l'altro un bagno molto modesto. »
Ammetto di aver amato i suoi film ma di non avere una grande affinità di pensiero con Monicelli. Era un cinico ed io non lo sono, per niente. Pensava che la vita non valesse sempre la pena di essere vissuta, al contrario io ritengo che non valga mai la pena di essere vissuta.

Prima o poi a ogni uomo, come a re Mida, tocca di incontrare il suo Sileno. Di chiedere quale sia la miglior cosa che ci possa accadere, il desiderio più auspicabile. La risposta del satiro non può che essere sempre la stessa: "Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto. »

Sileno pecca di troppa compassione.
Per troppa bontà cerca di relegarci nell'ignoranza. C'è veramente "qualcosa che per noi è vantaggiosissimo non sentire"? Io credo di no. Camus scrive che esistono due categorie di uomini tristi, gli ignoranti e gli illusi. Per questo il medico pietoso Sileno ci nuoce, ci vorrebbe ignoranti. Nobile nelle intenzioni ma dannoso negli effetti, perché non guardare in faccia il mostro esistenziale non ci salva dai suoi artigli. Nascondere la testa sotto la sabbia al contrario ci nega la gioia dell'estetica e priva la vita dell'unica difesa che ha nei confronti della verità: l'arte.

Questa è la profonda contraddizione dell'uomo Monicelli, cinico nel pensiero ma capace di regalarci quell'arte che, se non a vivere, ci aiuta almeno a sopravvivere.

Se il saggio Sileno è onesto nel cuore della sua dialettica (Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente.), non riesce tuttavia a privarci definitivamente delle nostre illusioni ed eccolo ancora ad intristirci, a suggerirci una speranza. Una morte rapida e prematura.

Monicelli deve averlo preso in parola. Eccolo là: un moderno Kirillov. Lo immagino nella sua stanza d'ospedale a ripetere il monologo dell'eroe assurdo de "I Demoni": «Nella mia indiscutibile qualità di querelante e di rispondente, di giudice e di accusato, condanno questa natura, che, con impudente sfacciataggine, mi ha fatto nascere per soffrire - io la condanno ad essere annientata insieme con me. »
Lo immagino a saltare dalla finestra non per la sua età, non per il tumore che lo avrebbe portato a soffrire ancora di più, ma perché probabilmente era seccato dal cattivo gusto del pranzo dell'ospedale.

Un gesto di libertà, di rivolta. Questo avrebbe probabilmente voluto dire Monicelli a Sileno: non posso non essere mai esistito? Bene. Posso almeno morire, ora!

Purtroppo a Monicelli come a Kirillov è toccata una sorte che il vigliacco Sileno conosceva già, ma per troppa pietà ci ha taciuto: l'inutilità logica. Perché morire, è tanto inutile quanto vivere e non c'è peccato lavato dal suicidio del cristo Kirillov, non c'è nuova via di rivolta mostrata dalla sua morte. Non c'è nessuna dignità nel salto dalla finestra di un ospedale romano. La Russia, gli uomini, sono sempre lì, uguali, assurdi, perché in bilico tra la certezza di esistere e l'impossibilità di vivere.
Questo male, peggiore del tumore di Monicelli, perché non ammette rivolta o fuga è ciò da cui, inutilmente, Sileno ci voleva proteggere. Sia maledetto.

Se il suo suicidio è logicamente vano perché fisico e non logico, cosa ci rimane di Monicelli? E cosa ci rimane del Kirillov di Dostoevskij?
Degli splendidi film, un romanzo bellissimo e una vita che è arte in se stessa, perfettamente coerente con l'estetica del regista stesso. Ci resta la contraddizione di un cinico che non ci ha soltanto regalato dell'arte, ma ha reso la sua vita arte. Ecco, il suicidio di Monicelli non è significativo, è bello.

"L'arte è l'unica difesa della vita nei confronti della verità."
Friedrich Nietzsche





9 maggio 2010

The importance of being Earnest

Bentrovati.
E' più di un mese che non ci sentivamo. Un problema al pc, qualche giorno lontano da casa e una brutta ricaduta nel gaming online mi hanno tenuto lontano dal blog.
In compenso venendo a mancare la mia mente condivisa ho avuto tempo e modo di dedicarmi a qualche lettura interessante, da qui a questo articolo il passo è stato breve.

Il vecchio Ozzy cantava "My Jakyll doesn't hide", ma il nostro?
Il nostro Jakyll quanto si nasconde? E il nostro Jack? Jack e Jakyll sono la stessa cosa? Cosa ne è dei nostri Ernesti, Onesti e Franchi Mr. Hide?

Cosa sappiamo dopotutto dei Jack e dei Jakyll del nostro tempo?
Beh, quasi tutto. Nascono, crescono, studiano, lavorano: admire me, admire my home, admire my son, he's my clone. Poi invecchiano e cala il sipario.

Ma cosa ne è stato dell'Onesto Ernesto?
Questo è più difficile da spiegare.
Mr Hide, l'Onesto, si è ribellato alla sua apparenza di Jack, ne ha distrutto la morale, ne ha indebolito il pensiero. Ha ridotto la religione a superstizione: via i crocefissi, al loro posto idoli dorati di tecné. Gli analisti sono diventati i nostri sacerdoti confessori, gli psichiatri i nostri inquisitori. Cercare la verità a ogni costo, fare della medicina e dell'igiene un'ontologia, del diritto una legge naturale. Quello che prima era peccato è divenuto malattia, devianza dallo stato di natura scientifica.

L'età della ragione. Noi, gli Onesti, abbiamo preteso di poter usare la ragione, abbiamo stabilito dogmi scientifici, abbiamo deciso di uccidere il mito a favore della scienza.

Questo ci ha dato l'illusione della possibilità di una società nella quale i Jakyll non fossero più necessari. Questi nostri Jack esistono ancora, ovviamente, ma sono visti come residui bigotti di un'ignoranza storica, di una stupidità individuale.

Ogni devianza dal modello protoscientifico e razionalista dei nostri tempi è visto come apostasia, perché il vero ha assunto un valore assoluto, prendendo il posto di quella che era la morale dei secoli preilluministici. Curioso scambio di persona.
Hyde è ora la faccia pulita di Jakyll. Ernesto è il falso, Jack l'Onesto.

Quello che abbiamo creduto e chiamato progresso si è rivelato essere una mera illusione. C'è stato solo un gioco delle parti, gli attori si sono scambiati la maschera. Cosa ci rimane alla fine dunque?

Io credo che ci rimanga ancora il piacere di essere Onesti. Onesti veramente, nel solo senso possibile, quello negativo. Nell'ammissione che l'unica verità è l'impossibilità di determinare la verità, che l'unica verità che ci è data è quella linguistico-storica, quella che si codifica secondo i binari dei rapporti di potere sociali e del pensiero storico contemporaneo.

30 marzo 2010

The sound of silence.

Immagino sia capitato anche a voi.
Cena a due, una compagna muta, muti anche voi. Quel silenzio insistito che non è complicità, è disagio. Non aver niente da dire perché non si vuole aver niente a che fare con chi vi siede di fronte. Passano i minuti, i suoni sembrano accentuarsi. Sono un sollievo perché il silenzio è insopportabile ma anche una condanna perché, quel silenzio, lo sottolineano.
Che dareste per uscire da quelle situazioni. Non è così?

Oppure in un luogo affollato dove tutti parlano, ma nessuno in fondo ascolta. Qualcuno si rivolge a voi ma voi leggete, per distrarvi, la locandina che sta alle sue spalle, sempre più interessante della conversazione in atto. Sorridete, ma è un ghigno, è il disagio di voler essere altrove, di essere qualcun altro.

Basta essere uomini per provare questo disagio almeno una volta nella vita. Eppure ci sono uomini che sembrano esserne immuni: i nostri politici.

Da ieri notte il silenzio delle nostre case è rotto dalle dichiarazioni di tutti i politici che blaterano di aver vinto le elezioni.
Il mio partito ha aumentato i suoi voti. Il presidente eletto in questa regione è del mio partito: ho vinto. Partendo da una situazione così svantaggiosa abbiamo si perso, ma con onore, quindi abbiamo vinto. Siamo stati l'ago della bilancia in tutte le regioni, con il nostro 2.5 percento. Il merito di quella vittoria è nostra. Vinto. Vinciamo. Vincere e vinceremo!

Credo di aver esaurito tutte le locandine mai stampate in tutte le tipografie del mondo in questi due giorni. Ho letto le etichette dei vestiti, i volantini del circo, gli oroscopi, contato le bottiglie dietro i banconi dei bar, letto le targhe di tutte le automobili che mi sono passate di fronte. Perdio, credo di aver letto anche focus, per quanto mi annoiava il rumore di fondo di chi parla senza mai ascoltare.

Eppure i nostri politici non si sentono a disagio, anzi, non sentono proprio. Parlano, ma non ascoltano. Non sentono questo insopportabile silenzio.

Dicono di aver vinto, ma hanno perso. Il partito che ha raccolto più voti in praticamente tutte le regioni è stato quello dei muti, il partito del silenzio. Più di un italiano su tre ha deciso di stare zitto, indispettito, a disagio. Stiamo zitti non perché non abbiamo niente da dire, ma perché non c'è nessuno disposto ad ascoltare, e noi non abbiamo più intenzione di avere niente a che fare con chi non ha la volontà di ascoltare, con chi non è a disagio nemmeno nel silenzio, non ha più orecchie per ascoltare perché può coprire ogni voce, ogni silenzio, con la propria.

Io mi chiedo, vi chiedo: fino a quando potranno ignorare questa tensione? Fino a quando potranno calpestarci? Per quanto ancora potranno coprire e nascondere, con la loro voce, la nostra? Fino a quando potranno ignorare il suono del silenzio?

22 marzo 2010

L'ultimo mondo.

Era chiaro come se ne sarebbe andato il primo. Ci aveva pensato a lungo. Tutto era stato preparato nei minimi dettagli: l'anestesia, il medico, quella stanzetta senza finestre. Era una vecchia sala prove. Per anni aveva tenuto il mondo lontano dalle urla del rock. Ora sarebbe stata testimone dell'ultimo atto, del primo mondo che muore.

Trovare il medico non era stato facile. Parlare a mezze frasi, cercare di scorgere qualcosa negli occhi dei vari candidati, prima che fosse troppo tardi. Prima di fare un passo che non avrebbe ammesso la retromarcia. Prima di lasciare un'orma incancellabile.
Era stato attento. Mai un passo falso. Mai quell'ultima parola. Finché un giorno aveva trovato quello che faceva al caso suo, la luce negli occhi di quello che sarebbe stato il suo medico. Fece l'ultimo passo verso il primo mondo che muore. Non si domandò se il medico fosse consapevole di stare per morire anch'egli, che quella luce nei suoi occhi non si sarebbe più accesa. In fondo non era importante.

Arrivò quel giorno: il primo mondo morì. Andò tutto come previsto. Si svegliò ed era rimasto solo quel suono: toc, toc, toc.
L'aveva messo in conto e non era un problema. L'aveva sempre saputo. Un mondo che muore lascia comunque un cadavere, fosse anche un suono: toc, toc, toc. Fosse metallo, pietra, legno o soffice erba, quando si trasformava in uno sfreghio, in un grattio di fili strappati...era solo un cadavere freddo. Un cadavere non fa male, soprattutto se hai sempre saputo che sarebbe stato lì, dopo la morte del primo mondo.

A interrompere il suono c'era solo la notte. Che a chiamarla notte è ironico, perché la notte faceva parte del primo mondo e con lui era morta. La si poteva chiamare sonno, stanchezza o riposo. Cessava il suono e arrivavano gli altri mondi.

Quando se ne rese conto fu terribile. Aveva pensato a tutto, perfino al suono, ma non a quegli altri mondi. Pensava di aver ucciso il mondo, invece aveva ucciso solo il primo mondo. Negli altri mondi c'erano quasi tutti: suo padre, le sue sorelle, i suoi figli. C'era la sua casa, la sua città, le altre città, anche quelle che non aveva mai visitato, anche quelle immaginate e immaginarie. Cessava il suono e arrivavano gli altri mondi, implacabili.

Provò per qualche tempo a rinunciare a quella che non poteva più essere chiamata notte, cammianava, e quel suono lo accompagnava: toc, toc, toc. Alla fine, ogni volta, crollava. Gli altri mondi tornavano, suo padre gli parlava, le sue sorelle giocavano di fronte a lui, i mille cieli di tutti i colori lo schiacciavano sotto i loro nomi. Con i loro nomi.

Pensò di tornare dal suo medico, ma non poteva. Era morto col primo mondo, non poteva più raggiungerlo, aveva solo un suono: toc, toc, toc.

Sembrava tutto perduto quando dopo una lunga camminata e un lungo concerto di toc, toc, toc, articolati su vari materiali come note emesse da strumenti diversi si lasciò andare ancora una volta al riposo. Quelle figure che lo venivano a trovare erano diverse, senza più nomi. Guardava i loro volti senza più riconoscere il padre e le sorelle, prima solo vuoti ovali al posto dei visi, poi neppure quelli. Sparirono una dopo l'altra le figure degli altri mondi. Sparirono i ricordi e con essi i nomi. Le città apparvero piatte, i muri sbiadirono perché aveva dimenticato cosa significasse la parola muro.

Toc. Toc. Toc. Poi di nuovo il sonno.

I cieli sparirono in un buco nero, poi fu il buco a sparire, perché buco non significa più alcunché. Sparirono i suoni, le voci, perché non c'erano più storie da raccontare. Le storie che sono l'unica storia di tutti i mondi.

Toc. Toc. Toc. Camminare. Poi abbandonarsi a quella che non poteva più essere chiamata notte.

Infine vide uno specchio che rifletteva la sua immagine, l'ultimo mondo. Vide lo specchio svanire, perché aveva dimenticato cosa significasse la parola specchio. Vide il suo volto diventare un ovale vuoto, la sua immagine sparì col suo nome, con la sua storia, che poi è l'unica storia di tutti i mondi. Non c'era più.

Si svegliò e cercò tentoni il bastone da passeggio, si alzò e fece due passi: Toc, Toc, Toc. Si passò lentamente le mani sul volto e toccò le orbite vuote che avevano ospitato i suoi occhi fino a quel giorno, in quella piccola sala prove.
Per la prima volta in vita sua, sorrise.

13 marzo 2010

8 marzo 2010

8 marzo: festa dei rasoi degli uomini.

Oggi si ricorda il 1908.
Si dovrebbe ricordare; ma si festeggia.

Centoventinove operaie dell'impresa Cotton di New York, centodue anni fa, furono rinchiuse nella loro fabbrica, dai loro datori di lavoro e arse vive.
Erano colpevoli di aver scioperato.

Quale miglior modo di ricordarle di una bella cena, una sbronza e uno strip?
Due fiori gialli? Perché no. Magari una trombatina dopo, io sopra e lei sotto. Quindici minuti per marcare il cartellino, che non si monti la testa. Giusto per ricordare il momento solenne dell'otto marzo.

A New York, alla fabbrica della Cotton, centodue anni prima della mimosa che comprerete o riceverete oggi, quelle donne stavano solo chiedendo una vita migliore. Stavano reclamando la sola vera aspirazione che ogni essere umano che sbuca in questo mondo possiede: l'essere felice.

Ne è passato di tempo. E' passato il femminismo. E' passata la rivoluzione sessuale: il demone dentro. E' passato il postfemminismo, che come uno tsunami di sborra ha sommerso tutto.
Che rimane oggi di quelle centoventinove operaie bruciate vive?

Quasi nulla, a stento il ricordo. L'hanno cancellato il ricordo, nascosto sotto un poster della Canalis che bacia George Clooney.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare.

Non che non c'abbiano provato, almeno per un po'. Purtroppo la strada era quella sbagliata. Le altre operaie, le madri, le mogli, le puttane, le figlie, tutte quelle che non erano in quella fabbrica, a New York, centodue anni fa, ci hanno provato. Ma a fare cosa?

La peggior cosa possibile, pensando che fosse l'unica. Hanno provato a scimmiottare l'uomo. Mancava però il pene. Così hanno preso a scimmiottarne il ruolo, il modello.

Che errore! Che condanna! Pensare che noi uomini stavamo aspettando loro, quelle centoventinove operaie della Cotton, per liberarci dal nostro modello. Da soli non potevamo farcela, sotto sotto l'abbiamo saputo sempre. Aspettavamo quelle voci, ma quelle grida erano state soffocate nel fumo, a New York, centodue anni fa.

Allora sono arrivate le mogli, le madri, le suore, le puttane, le figlie che volevano essere il nostro modello, quel modello che noi uomini avevamo costruito per renderci schiavi. Le mura della nostra cella: la chiesa, la casa, la società, il dovere, il comando, il cazzo eretto: produci consuma crepa.

E' un giogo. Troppo basso per essere attraversato in piedi, con la schiena dritta. Così ci siamo chinati, ingobbiti. Le ossa si sono rotte, ci siamo mutilati da soli: deformi nel modello che noi avevamo disegnato col nerofumo del rogo del 1908, a New York, nello stabilimento della Cotton.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare. I bambolotti, che un giorno sarai madre. Il vestito da sposa, che quel giorno sarai la più bella. La giacca. La gonna. Il lavoro. Il successo. La gara. Il cazzo eretto. Produci. Consuma. Crepa.

Hanno preso il nostro rasoio e non avendo barba l'hanno usato per decapitarsi, per passare anche loro sotto il giogo costruito dagli uomini. Storpie, deformi, come deforme era il loro modello. Il cristo uomo deforme: padre, marito, padrone, figlio, amante, schiavo, carnefice.

A passare sotto quel giogo non sapevano cosa le aspettava. Mi viene da essere contento per quelle centoventinove operaie. Loro almeno non hanno visto altro che fumo negli occhi, nei polmoni, il fuoco sulla pelle. Non hanno visto Sex and the City, le veline, le stagiste godive, la Carfagna ministro delle pari opportunità, le donne manager, FX, Studio Aperto, la Canalis, le mogli dei calciatori, Ilari Blasi, quelli che il calcio condotto dalla Ventura, gli stivali da seicento euro, l'anoressia, le erboristerie, le diete, la Santanchè, le palestre, le copertine photoshoppate. In una parola: cadaveri deformi, automutilati con i nostri rasoi e considerate alla pari di idrovore da sborra.

E noi, qui, impotenti e deboli, ad aspettare ancora di essere salvati.

E' tempo di festeggiare.

24 febbraio 2010

Google, l'Italia vince l'oro nella marcia (indietro).

Oggi il giudice Oscar Magi della quarta sezione penale ha condannato a sei mesi di reclusione per violazione della privacy tre dirigenti di Google Italia, nel processo di primo grado che li vedeva imputati anche per diffamazione, capo d'accusa in relazione al quale invece sono stati assolti.

In breve: il giudice ha applicato per analogia la legislazione relativa alla carta stampata, considerando Google responsabile per la pubblicazione di un video in cui un disabile veniva preso di mira con atti di bullismo.

Cosa c'è che non va? Perché sto scrivendo questo articolo su una sentenza di primo grado per un reato minore?

La risposta è semplice, questa sentenza è unica nel suo genere e apre le porte a molte considerazioni.
Nessun tribunale, di nessuno stato, aveva mai condannato un gestore di servizi online per il materiale che un utente terzo aveva pubblicato utilizzando il servizio fornito, al massimo si era intervenuti per obbligare il gestore a rimuovere tale materiale in caso violasse delle leggi in vigore in un dato stato.

Non interessa qui, ora, nel mio spazio, l'analisi legale della questione, non dubito ci siano altri più preparati e competenti nel sottolineare le forzature di questa sentenza e l'inadeguatezza della legislazione italiana in materia. Mi interessa sottolineare l'unicità del provvedimento. Se infatti, in sostanza, nessuno stato ha ancora messo appunto una disciplina legale capace di regolamentare la rete senza snaturarne la ratio finale (ammesso che sia possibile), non era mai stato emesso nessun atto di condanna simile. L'Italia vince questa medaglia d'oro, nella marcia indietro nel tempo.

Assimilare la carta stampata alla rete non è semplicemente una forzatura, è la prova della mancanza di comprensione di un fenomeno che rappresenta il più grande cambiamento di questi anni e che sembra non solo esponenziale nel suo avanzare, ma anche inevitabile. Vorrebbero!
Vorrebbero che la rete fosse simile alla carta stampata, in cui controllare cinquanta, cento uomini chiave permette un monopolio dell'informazione e di fatto, un potere che ben conosciamo in questo paese, ma così non è, la rete va ben oltre l'informazione.

Lungi da me fare un'apologia della rete ora. Chi mi legge con una certa regolarità, avrà avuto occasione di accorgersi che non sono particolarmente entusiasta del rumore di fondo e della massa di informazioni di basso livello che girano sulla rete (chi non ha avuto occasione può trovare gli articoli qui e qui) a cui il video in questione sicuramente appartiene ma, nonostante ciò, l'ipocrisia e la posizione reazionaria della sentenza in questione mi obbligano a non rimanere in silenzio.

Ipocrisia, perché al di là delle frasi di circostanza, si è di fatto sfruttato il soggetto del video in questione, un disabile, per aumentare la cassa di risonanza del fatto e per cercare di influenzare il giudizio dell'opinione pubblica.

Reazione al progresso, perché una presa di posizione di questo genere rende, di fatto, impossibile offrire servizi di hosting sulla rete, minandone alla base la filosofia, il funzionamento e la pragmatica. Anche io, ultimo tra gli ultimi, non avrei più possibilità di parlarvi da questo piccolo spazio in casso passasse la concezione che, chi ospita il mio pensiero, ne sia oggettivamente responsabile. Sarebbe come incolpare le poste per le lettere minatorie, i gestori di telefonia per le telefonate di minaccia. Il fatto stesso che non sia possibile controllare tutte le voci e le opinioni che formano la coscienza condivisa della rete non può, in nessun caso, autorizzare lo stato ad usare gli host come sbirri delegati al controllo sul materiale che forma la rete, per quanto squallido, inutile o grottesco esso sia. Chi lo partorisce è il solo responsabile del suo pensiero e delle sue azioni.

Se volete farvi due risate potete cercare le dichiarazioni dell'ex ministro Fioroni a riguardo, mi scuserete se provo troppo imbarazzo anche solo per copiaincollarle qui.
Questo imbarazzo nasce dalla consapevolezza che la nostra classe dirigente, non è solo totalmente impreparata e ignorante, riguardo alla più grande rivoluzione che sta scorrendo viva attraverso le connessioni che fanno da ponte di condivisione per il pensiero di milioni di uomini, ma ne è spaventata. Hanno una tale paura che la loro paranoia sta velocemente degenerando in schizofrenia.

A essere onesti, tutto sommato, ne hanno ben donde. Che lo vogliano o meno verranno seppelliti, perché di fatto già cadaveri di un'epoca che non gli appartiene, da una coscienza condivisa che non possono arginare, maneggiare o piegare ai loro scopi.

20 febbraio 2010

E-Ink, muore la carta? (Precisazioni)

Iniziamo dalla fine, dalle precisazioni.
Mi sono arrivate delle mail a proposito dell'ultimo articolo, non capisco il perché non scrivere direttamente nel blog al posto di mandarmi una lettera ma tant'è. Non le pubblico ma mi limito a rispondere brevemente.
Il mio non era né un elogio, né un'apologia. Tra l'altro nonostante chi sia stato tradito possa trovarsi meglio nei panni di Amleto non trarrei conclusioni affrettate, fossi in voi, che a scambiare l'interprete col personaggio si rischia di fare un gran casino.

Saltando di palo in frasca...

...stavo seriamente pensando di comprare un lettore di E-book reader. Per chi non sapesse di cosa si tratta la farò corta: è un apparecchio elettronico portabile nel quale si possono caricare e visualizzare file di testo, quindi anche interi libri, per poi leggerli come si fa(ceva) con i vecchi volumi.

Volumi, arrotolati. Si chiamano così perché in principio la parola scritta era intrappolata in pergamene e papiri arrotolati, poi si è passati ai codici e senza soffermarmi sull'etimologia, basta un passo ancora per lasciare indietro la calligrafia degli amanuensi a favore delle lettere stampate a rullo di Gutemberg.
E' arrivato il tempo del prossimo passo?

Time Machine, target: 79 a.C. Egitto

-Io non ci credo! Sono diventati pazzi, da sempre abbiamo conservato la conoscenza nei volumi. Srotolare il papiro è un rito: la sensazione dei fusti seccati che scivolano sulla mano. Per non parlare dell'idea della sapienza che si schiude di fronte a noi, le leggi, la geometria, come si può inscatolare tutto questo in delle tavole. Non funzionerà mai!

Time Machine, target: 1455 d.C. Abbazia di Montecassino

-Abate, abate! Ho appena ricevuto quelle due bibbie dalla Germania, da Magonza. Non ci crederà mai, sono identiche!
-Non dire idiozie fratello, nessun codice può essere identico ad un altro, ogni uomo che ricopia ha la sua calligrafia e esprime la sua arte attraverso miniature sempre differenti...CHE DIAVOLERIA E' MAI QUESTA? -Si fa il segno della croce. -Mio dio santissimo, che ne sarà di noi, libri uguali. Tutta l'arte dei miniatori, la pazienza degli amanuensi, tutto perso? Come sono freddi questi libri uguali. Anonimi. Non parliamo poi di quanto sarà facile ora ottenerli. La sapienza sarà sminuita, tutti potranno avere accesso ai libri. Non saranno più dei tesori da custodire gelosamente, ma verranno dati alla mercé del popolino. Il popolino non li capirà mai. Ci sono libri pericolosi...oh mio dio. Che guaio. Che sciagura. Deve essere frutto del demonio, chi altri?

Time machine, target: 2010 The Net\forum\libri

:) ololol Ma dai su :rotfl: ma il piacere della carta? L'avere il libro? Ke gusto ciè a non sentire l'odore dll colla :zomg:

A noi. Qui, ora, oggi. Siamo testimoni di una lenta rivoluzione. Il formato digitale sta lentamente prendendo il posto della carta stampata. Possiamo essere più o meno d'accordo, accadrà comunque. Se questo fenomeno è in ritardo rispetto a quello che è accaduto per la musica e il cinema, è solo per le difficoltà tecniche che hanno impedito la funzionale fruizione della parola scritta sugli schermi. Più semplice? Leggere su schermo frigge gli occhi e causa emicrania. I nuovi lettori E-ink hanno risolto il problema. Non mi dilungherò in specifiche tecniche, confidando nella vostra abilità di usare google.

Più interessante è analizzare le conseguenze di questa rivoluzione. A breve, come già successo per la musica e il cinema, la letteratura e le opere scritte in genere saranno disponibili a neuromanti e neofiti della rate gratuitamente. In confronto la rivoluzione della stampa di Gutemberg è una quisquiglia.

Non temano le case editrici, la carta stampata non sparirà, come non sono spariti cinema, dischi e DVD. Semplicemente ora, chi vorrà, avrà accesso a risorse che prima gli erano precluse per motivi economici, logistici (un'intera biblioteca occuperà lo spazio di un libriccino di 200 pagine) e strutturali (eliminando il vincolo fisico si azzerano le distanze, si favorisce la reperibilità e si elimina lo spreco\costo delle risorse. Le foreste ringraziano sentitamente).

In chiusura rimane tempo e spazio per una riflessione sul diritto d'autore. L'argomento è controverso e discuterlo in poche righe è quasi deprimente, sicuramente riduttivo, ma mi preme esporre la mia posizione: da sempre considero l'espressione culturale come una naturale conseguenza della natura umana, venne prima la musica della Siae, venne prima la letteratura delle case editrici. Questo fenomeno creativo e insorgente è figlio della cultura e della partecipazione di ogni uomo che passa, manifestandosi, su questo mondo, l'artista ne è al massimo l'interprete. La musica che ascoltiamo siamo noi, le parole che leggiamo sono i nostri pensieri, le tele che osserviamo sono il simulacro della nostra immaginazione, dei nostri tempi, della nostra società. Pagare per usufruirne non è un peccato, né un'aberrazione, quanto non lo è accedervi gratuitamente. Da oggi il mondo è un po' più vicino alla mia sensibilità.

14 febbraio 2010

Happy Valentine's day Lady Jane.

Mata Hari? Ammettiamolo, era una dilettante.
Sei tu la regina delle amanti. Quindi perché non oggi, perché non ora. E' il giorno perfetto per fare due chiacchiere.

Permetti questo ballo?



Quanti amanti hai avuto? Uomini, donne, non fa alcuna differenza per te. Quante maschere? Vengono le vertigini a pensarci.
Per Giulietta è morto solo un Romeo. Per Romeo si è uccisa una sola Giulietta. Dilettanti.

Re di pointlandia: felici in se stessi. Quanti amanti hai reso sovrani? Certo la corona ha un prezzo, in questo caso l'empatia. Come puoi conservarne anche solo un briciolo quando sei felice in te stesso e non esiste più niente altro? Prezzo salato, ammetterai. Eppure in tanti l'hanno pagato, re e regine ai bordi di una società che non rappresenta più niente ai loro occhi. Sottopassaggi come stanze del trono, manicomi come saloni da ballo. Sovrani con gli occhi di chi non vede più alcuna dimensione che non sia l'assenza di dimensione. Un punto. Niente altezza, nessuno spessore, solo se stessi, niente altro che la propria voce. E' normale che questa sia la tua maschera più spaventosa, quella più incomprensibile al nostro mondo, ma ne hai tante, quanti sono i tuoi amanti.

Puttana, per svezzare i nostri figli, rassicurante, sistematica. Sono i genitori a presentarti i loro figli. Tu con un sorriso che è un ghigno, li rassicuri: andrà tutto bene, state tranquilli. Vesti abiti di infermiera e di medico, ma cosa amputa il tuo bisturi? Che cosa curi dei tuoi giovani amanti?

Ti hanno chiamato Lucia, ti hanno chiamato guida..."so much poison come undone"...

Orge. Quante ne hai viste? Da sempre, hai così tanti anni, hai visto così tante cose, eppure sembri sempre giovane, un cambio di maschera e oplà: una nuova amante, una vecchia prostituta. Riti sociali, la società ti ama da sempre, basta scegliere la maschera giusta. La maschera per coprire il volto delle novelle libere donne di Magliano . La maschera della normalità. La maschera dei sacerdoti. La maschera dei giovani uomini che crescono insieme.

Ti hanno chiamato porta, ti hanno chiamato morte..."I'm so selfish, I'm unkind"...

Quanti amanti hai svegliato? Quante belle addormentate hai baciato? Tu che sei Lucia, che sta in cielo coi diamanti. Chissà se la realtà in cui si sono ritrovate è piaciuta loro? Non è mai stato un tuo problema. Su la maschera! Chi sei in fondo?

Tanti auguri Milady, tu che puoi trasformare un ragazzo in un uomo, un uomo in un punto, la bella addormentata in una principessa pazza, un mondo in niente.
Buon san Valentino.


25 gennaio 2010

Io. Neuromante e malato.

Stanotte chiuderò la mia trilogia di articoli sulla devianza della pazzia, in caso ve li foste persi potete trovare gli altri due articoli qui e qui.

Oggi Repubblica titolava: "I malati di Internet". Faceva eco il Corriere con un articolo su una clinica per i "malati di internet", a sud di Pechino, nell'amorevole Cina. Un servizio per ogni tg. Vostro figlio gioca col piccì? Può essere grave. Accoltellato padre che spegne la consolle del figlio! Internet è una dipendenza, come fumo, alcol e droga. Ah la dddroga!

Sono malato.

Curiosa diagnosi. Faccio notare all'amorevole dottore che è totalmente non richiesta, abbia pazienza per questa volta. Nessuno aveva chiesto il suo parere. Nessuno.

Il malato che non richiede una diagnosi e rifiuta la cura è pazzo. Semplice logica. Lo facciamo per il suo bene.

Sono pazzo. Alleluia!

La mia pazzia, la mia orrenda devianza risiede nell'aver abbandonato il mio ruolo, il mio corpo.
Figlio adorato. Marito premuroso. Cittadino inconsapevole. Suddito fedele. Lavoratore operoso. Consumatore affidabile. Fedele devoto. Di questo non rimane che cenere.
Il fallimento del sistema, le catene spezzate delle vie già tracciate sulla cartina stradale del contratto sociale.
L'ultimo baluardo a resistere è stato il mio corpo. Non era sufficiente. Non che mi avesse servito male, non che non lo farà in futuro. Me ne prendo cura come mi prendo cura delle cose che mi circondano. Semplicemente non arriva abbastanza lontano.

Oggi non trovo nessuna differenza tra le sinapsi neurali nella mia testa e le connessioni digitali che collegano il mio pc alla mente di milioni di persone che sono l'altro me stesso. Come gli amici, "come i numeri 220 e 284, composti l'uno dei divisori dell'altro", fatti della stessa materia.
Neuromante, sacerdote di un rito Voodoo di silicio che realizza la comunione di ciò che, per sua natura, è unico e indivisibile.

Quando la mente si disgrega in personalità multiple, in avatar condivisi, in molteplici manifestazioni la medicina usa una parola: schizofrenia. Grazie dottore. Anche in questo caso è una diagnosi non richiesta.

Alleluia!

La proiezione della mente al di là dei limiti corporei è una pratica così antica che a guardare in fondo al pozzo si rischia una vertigine. Oggi, adesso, le mie mani che scorrono sulla tastiera sono solo l'ultimo dei riti di una dottrina mistica che squarcia il velo. Babalawo di un culto che unisce la mente di centinaia di milioni di uomini. Uomini ai quali il loro corpo non è più sufficiente. Uomini che sacrificano la propria identità per una comunione di conoscenza.
Virus. La dottoressa Blackmore spiegherebbe così la rete. Saremmo, sarei, ancora una volta malato.

Mi spiace dottoressa, non è così. Non è mai stato così. Noi non siamo l'idea di noi stessi, il linguaggio che ci descrive. Non siamo il nostro corpo. Io sono tutto ciò che non è Io. La parte contiene l'intero e ogni uomo che oggi si erige a Neuromante contiene l'intera rete.

Quanto questo sia spaventoso, a vederlo dall'esterno, mi riesce difficile da concepire. La mia devianza, la pazzia della consapevolezza della comunione con tutte le cose che non sono io. Povero cronista di repubblica, povero governo cinese. E' assai ironico come quello stesso cronista sia, anche ora, uno dei miei numeri amici, sia l'altro me stesso, sia Io, sia la mia mente.


"Uccidi i tuoi genitori, il possesso e l'orgoglio;
uccidi il tuo padrone, il pensiero astratto;
distruggi il tuo mondo con le sue passioni senza freno,
cammina infine sano e salvo."

18 gennaio 2010

Sette giri.

L'altro ieri ricorreva il centenario della nascita di Mario Tobino. Psichiatra e scrittore, antifascista e cattolico. Un bel casino insomma.

Il caso ha voluto, che in quei giorni, come avrete visto dal mio scaffale Anobili, mi sia capitato di leggere un suo romanzo: "Le libere donne di Magliano". Un libro toccante e poetico, non ruffiano, in cui la follia puzza di piscio e galline morte, tra le celle umide del manicomio di Magliano. Un libro dal quale, allo stesso tempo, sgorga una dolcezza e un'umanità strappata, in bilico, negli occhi delle pazienti della casa di cura.

Da quei tempi ne è passata di acqua sotto i ponti, ma quel puzzo si sente ancora. Le mura di pietra sono state abbattute e al loro posto, asettiche e fredde, sono state innalzate torri di Xanax e Roipnol. Steccati di Lexotan si sono moltiplicati, oscuri pozzi di Oxapam e Quilibrex: moderni reparti per i pericolosi.

Al mio paese c'è un'usanza goliardica. Chiunque faccia, di corsa, sette giri della fontana della piazza può ottenere dalla pro loco locale un certificato di follia: la patente da mattu.

Come Cronenberg ne "Il demone sotto la pelle" esorcizza la libertà sessuale con i suoi parassiti gore, come Tobe Hopper in "Non aprire quella porta" esorcizza la rivoluzione sessantottina e la liberalizzazione dei costumi con la motosega di Leatherface, così noi, a Matelica, esorcizziamo la pazzia con sette giri della fontana. La rendiamo ridicola, giocosa, goliardica. Se ne potrebbe fare un concept, se non fosse un mezzo plagio: "Seven degrees of inner turbolence".

Paese dei matti e dei rissaioli. Così è conosciuta la mia cittadina nei dintorni. Lusinghiera nomea, dovete ammettere. Te ne accorgi girando per le strade, entrando nei locali. Non è raro imbattersi in chi "i russi, i russi controllano l'acqua...domani chiudono i rubinetti e che cazzo faccio? tu che cazzo fai?", in quello che "secondo te chi lo prende più in culo, Marina Ripa di Meana o Bill Gates?", in chi chiama Mario quello che si chiama Luca, Luca quello che si chiama Alessandro, mamma la barista e Danilo tutti gli altri esseri umani, ciao! C'è lo storto, la pazza urlante, "che io sono la più bella", quello che "Usciamo, che la risolviamo una volta per tutte!". Poi ci sono quelli che non vedi, quelli dietro le mura, al di là dei cancelli, in fondo ai pozzi.

Nessuno di questi che io sappia ha mai fatto i sette giri. Nessun certificato, nessuna cartolarizzazione. Probabilmente è questa la loro pazzia, il non essere certificati. Nei comportamenti, nel sentire, nelle scelte: l'infinita paura che abbiamo tutti noi di non rientrare nelle regole del "potere circolare", per dirla con le parole di uno che coi matti ha avuto a che fare.

Focault non ha solo formalizzato l'idea di potere circolare. E' stato di più. E' stato tutto e il suo contrario. E' stato eretto a dio di una moderna religione. E' stato l'amico che NON mi ha salvato la vita. E' stato l'abbattimento della morale, la riscossa dell'omosessualità, il trionfo della libera scelta, l'elogio delle follia come devianza possibile e a tratti, addirittura, necessaria.

Soprattutto è stato la mostruosa e inconfessabile contraddizione di aver tracciato una via luminosa e di rappresentare allo stesso tempo l'incapacità di seguirla. Lui, uomo piccolo, accademico di potere, creatore e utilizzatore di quel potere circolare da cui rivendicava la devianza e descriveva l'indipendenza. Potere che utilizzava per esercitare la sua misoginia, per favorire i suoi puer, per erigersi, come il vitello d'oro, a idolo infamante della religione che aveva rivelato. Lui, omosessuale, che rivendicava il diritto di VOI (non noi) omosessuali alla libertà di scelta, che fino anche in punto di morte nascondeva la sua malattia, l'AIDS, allora ancora conosciuta come "cancro dei froci".

Credo che Focault abbia fatto quei sette giri, come noi. Noi che cerchiamo di esorcizzare la follia, mettendola in ridicolo, nascondendo la nostra contraddizione, il nostro desiderio di perseguire quella via luminosa che è la libertà di scelta e al contempo la paura che ci stringe il cuore al solo pensiero. Per questo abbiamo eretto delle fortezze chimiche intorno a noi, per questo giriamo intorno alla fontana, per questa inconfessabile ragione il matto è un malato, un estraneo, uno straniero. E' il nostro pensiero che ci spaventa, è la nostra volontà castrata di eunuchi del potere circolare.

14 gennaio 2010

Oracoli.

Ce ne fossero...

In effetti ce ne sono fin troppi, uno ogni due calendari del nuovo anno, che sarà sicuramente meglio di quello vecchio. Antichi, moderni, letterari. Oroscopi occidentali, oroscopi cinesi, cartomanti abbondanti, abbonamenti a rabdomanti, 144 anzi no, ora è un altro numero: 144 era una truffa, quello nuovo, che è uguale, no.

Dove voglio andare a parare sotto questo cappello?
Bella domanda, potremmo interrogare le stelle, o le budella dei polli. Mi hanno detto che ormai i polli sono tutto petto quindi addio auruspex. Il mercato non è più in grado di assorbire questa figura professionale.

La faccio breve. Ieri ho visto che avevano regalato a mia madre il libro dei Ching. Regalo gradito, tra l'altro. L'aveva riposto in libreria tra i libri universitari di chimica di mio padre e la "ricchissima e nuova (nel '79) enciclopedia degli animali". Quella zona della libreria rappresenta per la mia famiglia, quello che il triangolo delle Bermuda è per i marinai.

Il libro dei ching è il più antico oracolo esistente al mondo. Funziona grossomodo così: si lanciano 3 monete per sei volte, ogni faccia delle monete ha un valore associato, 2 per lo yin e 3 per lo yang. Si sommano i valori che corrispondono a linee fisse, spezzate, intere, mobili. A secondo del risultato, il libro ci riserva una risposta a una nostra domanda, intima e profonda o stupida e faceta. Se tra ventidue secoli i nostri discendenti troveranno una scatola di baci perugina putrefatti e raccoglieranno i fogliettini di Moccia avranno la versione 2.0 dei ching.

Alla fine dell'800 un chirurgo tossicodipendente spiegò al mondo che le parole potevano curare le malattie. Fu preso per matto, ironia della sorte. Oggi, a molti, basta leggere uno dei suoi libri per considerarsi profondi conoscitori dell'animo umano.

Per i tossicodipendenti degli oracoli vale la stessa cosa. Le parole sul libro, le parole dell'oroscopo sui giornali e le riviste, le parole che escono dalle cornette a tre euro al minuto sono una cura.
La cura per la mancanza di autodeterminazione della loro volontà.
Il sé determina l'universo, e determina anche gli oracoli, la nostra cura, la nostra flebo di volontà, lo specchio sul quale il nostro transfert si riflette. Non so quanto costi il libro che hanno regalato a mia madre, il prezzo è stato grattato via, ma sono sicuro che sia molto più economico di una lunga terapia. Il libro inoltre non è un tossicodipendente, non tagliuzzava le persone, al massimo qualche graffio sulle dita e puoi sempre rimetterlo lì, tra "chimica organica I" e "Volume XIV: i grandi felini, dominatori della savana!"

E così sia, ballino le monete...Re di cuori: niente male.

9 gennaio 2010

Rosarno's blues. Dodici battute in Do di matto.

L'intro strumentale è quella che nessuno ascolta, di solito. Perché ancora mancano due tiri a finire la sigaretta, un sorso di whiskey, prima che inizi il cantato, quelle dodici battute sempre uguali. Che palle il blues, è troppo bello.

Questa volta l'intro però l'hanno sentita, perché suonava di vetri rotti. Perché le bacchette non carezzavano la batteria. Erano bastoni, spranghe, cartelli stradali divelti.

E via con la prima strofa, dodici ottavi. Che è come quattro quarti, solo un po' sghembo. Terzinato, lo chiamano i musicisti. Per gli altri è...così, che non capisco proprio, ma qualcosa mi dice dentro che va bene, che è stato sempre così. Che palle il blues...è troppo bello.

Prima strofa.
E' in Mi incazzo, che non è né il quarto né il quinto grado del Do di matto. Né la dominante, né la sottodominante, per questo suona strana, per questo la gente ascolta. Il Mi incazzo è la libera. La libera non c'è nella teoria musicale, ma c'è a Rosarno, nella prima strofa.

Quando è finita la prima strofa la gente ascolta. A qualcuno è piaciuta, qualcuno non l'ha capita; perchè ci sarebbe dovuta essere una dominante statale, o una sottodominante della 'ndrangheta. Che è questa novità della libera dei negri? Che se ne tornino a casa loro. A suonare la loro musica. Che il blues lo sappiamo suonare meglio noi bianchi, un po' di civiltà, che diamine. Almeno la dignità di morire soffrendo in silenzio. Perchè cantano?

Qualcuno è addirittura spaventato, si chiude in casa. Doppia mandata, che con una sola magari entra il Mi libero o il Do, che si sa, in questi casi è il Do di matto e non sai mai quali accordi ci vanno prima e dopo. Quelli soliti, il Fa comodo o il Si campa meglio con la catena al piede e gli occhi chiusi proprio stonano.

Turnaround... Do-po tornerà tutto a posto, Sol-tanto degli incivili, Fa comodo così...

Seconda strofa.
Oramai le dodici battute le abbiamo capite. Tornano la dominante e la sottodominante. La dominante suona strumentale, sono i colpi di fucile, le ossa rotte. La sottodominante canta invece il solito ritornello, interprete conosciuto, il ministro Maroni. Esemplare compositore della ballata "Forte con i deboli e debole con i forti". Duettando con la 'ndrangheta, chiosa in Mi sono cagato sotto: è colpa dell'immigrazione clandestina (non del caporalato e dello schiavismo).
Baciamo le mani ministro. E votiamo in Fa comodo anche questa volta.

Turnaround... Do-mani saranno messi a tacere, poi ci penserà la ndrangheta, Mi fanno schifo, Fa-te silenzio che c'è Vespa in tv...

Terza strofa.
La suona un musicista fuori dal coro. Roberto Saviano. Suona il mandolino e sempre la stessa canzone. Che palle il blues...è troppo bello: non lasciamoli soli. Chi si rivolta ha coraggio!
Strano accordo. A me sembra un Mi impegno. Ma il coro non coglie la variazione. TG, ore 20: si suona il "Si fa presto a pontificare vivendo all'estero e guadagnando soldi con i libri". Figurarsi, i libri.

Outro strumentale, e qui veramente nessuno ascolta. Perché non ci sono più vetri rotti, non ci sono più grida, non ci sono più ossa spezzate. Si suonano gli approfondimenti, in Mi annoio. I TG in Si stava meglio quando si stava peggio. Fraseggiano i politici in Re nudi.

E' tempo degli ultimi due tiri di sigaretta.

7 gennaio 2010

Il vento di Valencia.

Il vento di Valencia arriva così. Che non te ne accorgi, come uno schiaffo, quando prima non c'era nessuno. Sbandi e ti riprendi col cuore in gola.
Ti guardi intorno e vedi che anche gli altri hanno sbandato. Gli altri sulla via, sulla tua stessa strada. Se poi dormivi quando arriva è anche peggio. E' come cadere. Come nei sogni, che salti nel letto e cadi. Nel sogno e nel letto.

Arriva dal sud il vento di Valencia. Parte dall'Atlante, tocca appena il mare e corre su per l'Andalucia. Saluta i briganti che non ci sono più, su quei monti, e corre verso nord.

E' un vento d'africa che ti porta il calore, mentre sei sulla strada. Che l'importante è il viaggio, non la meta. Se ti fermi, lui passa lì accanto e quasi si sente l'Atlante, quasi arriva il mare. Se aspetti solo un attimo puoi perfino vedere i briganti che non ci sono più.
I briganti se li è portati via il vento di Valencia. E chissà cos'altro. Quando sale ancora più a nord, ti accorgi piano piano che ti manca qualche pezzo. Ti giri, col sole alle spalle, che è quasi sera. Immagini che qualcuno, su un'altra strada, durante un altro viaggio, senta anche te insieme all'Atlante, al mare e ai briganti, quelli che non ci sono più.
Ti viene anche voglia di inseguirlo il vento di Valencia, se la tua strada non andasse a sud, se quei pezzi ormai non fossero perduti.

Poi ti riaddormenti e il prossimo schiaffo è una carezza.

"La libertà è l'ultima delle passioni individuali. Per questo oggi è immorale. E' immorale nella società e, per esser precisi, anche in se stessa"
Albert Camus