16 ottobre 2011

La banalità della responsabilità ontologica. Black bloc e borghesucci feat. Herr Adolf Eichmann.

A volte capita, che anche in posti improbabili, come un paesino dell’entroterra marchigiano o una cittadina ligure, nascano delle persone interessanti. Nella fattispecie un’archeologa e antropologa con la passione del cosplay hentai e un filosofo hipster dedito più che altro all’alcolismo. A loro va il merito della metà di questo articolo. L’altra metà invece è dedicata ad uno dei servizi del telegiornale di Minzolini che ho, aimè, appena visto. La ringrazio di cuore direttore, lei non fa mai mancare la sua presenza ogni volta che facciamo un passo ulteriore verso la catastrofe.


Il 19 marzo 1906, in una cittadina della Renania settentrionale, Solingen, nasce il signor Adolf Eichmann. Cinquantasei anni dopo, il 31 maggio 1962, il suo corpo penzola da una forca in una cella della prigione di Ramla, Israele. Vediamo cosa è successo in questi cinquantasei anni.

Nella sua vita il signor Eichmann è stato un nazista. Per la precisione, un burocrate. Non ha contribuito in nessun modo alla giustificazione dialettica dell’ideologia nazionalsocialista tedesca, non ha scritto libri, non ha tenuto discorsi, non ha preso alcuna decisione politica.
Si è limitato ad occuparsi della tecnica e della tecnologia della cosiddetta “soluzione finale”. La sua carriera è iniziata con l’organizzazione della deportazione degli ebrei viennesi, in seguito all’Anschluss dell’Austria nel 1937, per poi continuare fino agli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.
Eichmann passava le sue giornate di fronte ad una scrivania. Si occupava di particolari. Quanti litri di Zyklon B si dovevano ordinare alla Bayern, a quali campi dovevano essere inviati e in quali quantità, quanti ebrei potesse ospitare ogni campo, in quanto tempo fosse possibile smaltire i corpi dei morti, quanto profonde dovevano essere le fosse comuni, quanto carbone per i forni fosse necessario, quanti treni occorrevano per deportare gli ebrei di quella o questa città, quante fermate avrebbero fatto quei treni per impedire la morte prematura dei deportati, in quali stazioni sarebbero dovuti fermare per non intralciare i rifornimenti per il fronte, quanto cibo sarebbe servito alle guardie che controllavano i prigionieri dei campi, come trasportare i beni sottratti e confiscati agli ebrei, cose di questo genere. Trascorse così le sue giornate, per sette lunghi anni, fino al 1944.
Dopo la guerra scappò in America latina, grazie ad un falso passaporto italiano. Nel 1960 fu rapito dai servizi segreti israeliani. A tradirlo fu suo figlio, che si vantò delle gesta del padre per provarci con una tizia a Buenos Aires. La vita sarebbe davvero insopportabile se non fosse così ironica.

Iniziò così il suo processo.
Nel corso del dibattimento Eichmann non si mostrò mai pentito del suo operato. Nessuna pietà o rimorso sembravano trasparire dalle sue dichiarazioni. Allo stesso modo affermò con compostezza che non aveva mai odiato gli ebrei e che non aveva mai sostenuto l’idea della superiorità della razza, portando come evidenza il suo matrimonio con una donna non ariana. Tutta la sue linea difensiva si basò sulla presunta mancanza di responsabilità nel suo operato. Era un burocrate, di basso rango per giunta, al quale venivano impartiti degli ordini ai quali non aveva nessuna possibilità di opporsi. Teneva famiglia, lui. Guardate la sua foto qui a fianco. Tutto sembra meno che un sistematico massacratore. Sembra un padre di famiglia, un impiegato del catasto, un ometto un po’ mediocre e un po’ noioso. Aveva dei vicini di casa ai quali sorrideva, un figlio un po’ scemo che per rimorchiare ha appeso di fatto il padre a una corda, una moglie bruttina che tradiva con delle prostitute ecc…
Fu dichiarato colpevole da una corte militare e la sua sorte fu la stessa della maggior parte degli imputati del processo che si era tenuto a Norimberga, quindici anni prima. Dopo l’impiccagione fu cremato e le sue ceneri sparse in mare aperto, oltre i confini delle acque territoriali Israeliane.


Torniamo all’hipster e all’antropologa. Ho avuto l’occasione di parlare con loro della questione della libertà di azione umana e della responsabilità che ne consegue. Entrambe le discussioni sono state abbastanza interessanti ma ve le risparmio perché fin troppo lunghe e articolate per un articolo di un blog. Passerò direttamente alla mia posizione che è emersa da quei discorsi.

Io credo che chiedersi quanto un uomo sia libero nelle sue scelte e quindi quanto debba rimanere in capo suo la responsabilità delle loro conseguenze sia fondamentalmente inutile.
Quando ci si pone una domanda ci si deve chiedere, in concomitanza, quali siano le conseguenze delle varie risposte possibili a quella domanda. Così ho fatto in relazione a questa questione.

Dopo che Hemingway si è sparato in testa con un fucile, possiamo chiederci se egli sia responsabile della sua sorte. Potrebbe aver coscientemente rinunciato alla vita a seguito di un ragionamento ben argomentato e solido o magari le atrocità delle guerre che aveva combattuto gli avevano rubato la fiducia nella vita, magari le circostanze gli avevano negato ogni speranza fino a costringerlo a premere il grilletto. Ma dopotutto, cosa cambia?
Quando il tuo cervello è sparso per il muro alle tue spalle sei comunque morto. Che differenza credete che passi tra un morto libero e uno costretto dalla contingenza stocastica? Che cambia tra un cadavere responsabile e uno innocente?
Nulla. Sempre cadavere resta.
Lo stesso vale per il signor Adolf Heichmann. Nel momento esatto in cui la corda gli spezza l’osso del collo, sulle sue spalle e sul suo corpo che verrà poi disperso in mare ricade la responsabilità ontologica di uno dei massacri più terribili della storia umana. Ogni ebreo morto conduce alla conseguenza inevitabile della corda. Che tu sia libero o obbligato ad una certa azione, politicamente, socialmente, neurologicamente poco importa. Se non puoi evitare la conseguenza, essa porta con sé la tua responsabilità.

Hannah Arendt, una filosofa statunitense che segui e studiò il processo Heichmann dedicò a quell’uomo una definizione che finì per entrare nel gergo comune: la banalità del male. Meglio avrebbe fatto ad usarne invece un’altra: la banalità della responsabilità ontologica.

Torniamo a Minzolini, alla dimostrazione di Roma, ai black block e ai borghesucci.
Cosa c’entreranno con un criminale nazista, vi starete chiedendo, immagino.

Non ho intenzione di palare dei complotti, degli infiltrati, delle ragioni della protesta, delle ragioni della polizia, dello stato e via discorrendo. Quello che mi interessa è individuare la responsabilità dello stato delle cose.

Il servizio del TG1 riguardava i poveri lavoratori che hanno avuto le auto incendiate, i poveri negozianti con le vetrine sfasciate, i poveri bancari che domani torneranno a lavoro con le sedi rovinate e il povero parroco che si è ritrovato la porta della chiesa sfondata e un crocifisso spaccato.

Che colpa avevano tutti questi poveracci?

Uno dei maggiori successi della nostra società, nel tentativo di restare in vita e replicarsi nonostante la sua mediocrità, sta proprio nella spersonalizzazione del potere. Sembra che nessuno sia responsabile dello stato delle cose. L’1% della popolazione mondiale detiene il 50% delle risorse del pianeta. Ventitremila persone al giorno muoiono per mancanza di cibo (fanno ottomiloniquattrocentomila ogni anno, Eichmann ce ne ha messi sette di anni per seimilioni di ebrei, dilettante). Costantemente la vita degli uomini viene rubata in un tritacarne produttivo senza alcuno scopo… ma… non è colpa di nessuno.
Quell’uno percento alla fine fa i suoi interessi, le banche il loro lavoro, i soldati obbediscono agli ordini, i generali ai governi, i governi alla volontà popolare, la volontà popolare alla volontà della divina provvidenza e così via.

E invece no! A me non sta bene. Non sta bene che siano usati due pesi e due misure per Eichmann e per gli Eichmann del nostro tempo. Ogni uomo che partecipa e ha partecipato alla costruzione di questa società porta su di sé la responsabilità ontologica delle sue conseguenze.
Non solo i capi di stato, non solo le potenti famiglie di banchieri, non solo i generali che guidano le guerre d’occupazione ma ogni singolo uomo che partecipa alla società è responsabile delle sue conseguenze.

Le auto in fumo, le vetrine sfondate, i danni casuali sono come la corda che spezza il collo di Eichmann, servono a legare gli uomini alle proprie responsabilità ontologiche. Ma erano padri di famiglia. Sono onesti lavoratori. Il mondo va così. Tengono famiglia. Sono bravi ragazzi. Chissenefrega, io prego per la pioggia.
Imparate a nuotare.