25 ottobre 2009

Do what thou Wilt.



Liberamente dedicato a chi stava cercando un senso.

19 ottobre 2009

Scienza e Neuroscienza. Brancolando nel buio...

E' un po' che non ci sentiamo. Ho avuto qualche problema. Ovviamente, non trattandosi di facebook, non ho la minima intenzione di parlarne qui.

Tornando a noi, capita a volte di cambiare idea su qualcosa, poi ricambiarla ancora, per poi...ci siamo capiti immagino.
Il qualcosa in questione è la cosiddetta neuroscienza.

Di come sia arrivato alla mia visione di coscienza ho parlato qui, della mia visione della scienza invece ho detto qualcosa qui. Vorrei ritornare un attimo sul secondo articolo.
Il fatto che Einstein abbia partorito una delle più grandi teorie unificatrici della storia dell'uomo senza uno straccio di esperimento, ha di fatto decretato la fine del metodo scientifico.

Da allora una serie di ricercatori si è sentita in grado e quasi in dovere di spingersi sempre più oltre, nel formulare teorie totalmente antilogiche con la presunzione di essere universali e rivoluzionarie. Questo rinnovato amore nella "scienza" ci ha regalato teorie eccellenti come la quantistica, ma anche una serie di ipotesi fantasiose, la cui "scientificità" è stata rimandata a conferme ipotetiche legate ad esperimenti impossibili allo stato attuale della tecnologia, e probabilmente relegati nel nostro futuro anteriore.

Questa nuova fede cieca nella scienza ha anche fatto sì, che un grande numero di persone creda o abbia creduto che ogni cosa sia spiegabile da un punto di vista scientifico e che i problemi insiti nella verifica delle ipotesi siano solo di ordine "tecnologico", per così dire.

Dal canto mio rimango dell'idea, che per quanto eleganti e interessanti, a fini letterari o filosofici, possano essere le ipotesi dei cosiddetti scienziati "teorici", la scienza rimanga quella confutabile, di Galileo e di Karl Popper. Intendiamoci, ben venga l'azzardo e la lungimiranza del coraggio di osare nuove strade, purché rimanga chiara la differenza tra un'ipotesi e una teoria supportata dall'esperienza.

Questo cappello serve ad introdurre un video, una conferenza di Henry Markram, realizzata per TED (potete trovare il link al sito in basso a sinistra se siete interessati), date un'occhiata, ci risentiamo tra una quindicina di minuti...



Rieccoci qui. Il tizio in questo video, in sostanza, afferma di essere riuscito a replicare una colonna neocorticale di un ratto su di un computer e di poter fare lo stesso per una umana. Una colonna neocorticale è una piccola sezione di cervello, che può essere considerata la sua unità funzionale, per quanto riguarda i processi della mente concettuale. Arrivati a questo punto, afferma che in dieci anni potrà costruire un cervello umano, semplicemente collegando in parallelo una quantità enorme di di computer come quello che simula la singola colonna, sarebbe ancora una volta una mera questione di tecnologia prima che un'altra barriera preclusa alla scienza venga abbattuta, il funzionamento del cervello umano e della sua coscienza.

Io sono stato per qualche anno un riduzionista, sull'onda dell'entusiasmo, per quel genio che non aveva bisogno del metodo scientifico. Poi ho cambiato idea, e ora ecco questo video a segnare un altro punto per Einstein.

L'ipotesi della cosiddetta "IA forte" è ben precedente al progetto Blue Brain di cui Henry Markram riassume i risultati nel video, è stata ispirazione per decine di racconti e film di fantascienza e bersaglio di innumerevoli critiche oltre che di appassionate difese a spada tratta. Oggi sembra che abbia segnato un altro punto a suo favore, un altro punto a favore degli scienziati teorici, grazie al metodo scientifico e allo stesso tempo contro la sua "necessita", considerata sacra per tanti anni e ora più che mai in bilico.

Per chi non avesse confidenza con l'ipotesi dell'IA forte un'introduzione accattivante può essere il racconto di Dennett intitolato "Dove sono". Lo potete scaricare in inglese (pdf) da qui o leggerlo in italiano su questo blog.

Al di là della mera questione, ci rimane ancora il dubbio originale: quel'è il limite della scienza? Esiste questo limite? La conoscenza è solo un problema di tecnologia?

8 ottobre 2009

Latrati.

I cani del re non erano di razza. Erano stati scelti in questo modo, secondo ragione, a tavolino. Tra i randagi, gli ultimi tra gli ultimi della specie, secondo metodo non sciocco e con maniacale cura.
Lasciatemi un attimo discutere sulle ragioni di questi metodi, perchè su di essi si basano i fatti di allora.

Un cane di razza è membro di una stirpe nobile, e questa nobiltà, lungi dall'essere un effimero titolo, si materializza in una certa facilità nell'apprendere le regole del vivere accanto ad un padrone, la si vede nei gesti e nella postura e rimane come uno stemma, attaccato al portamento della bestia. La quale, sempre pronta ad eseguire con destrezza i compiti per i quali viene addestrata, non manca di mostrare quel rigore e quella superbia che suscitano nell'estraneo un senso di ammirazione e di stima, quasi ad elevare il cane a ranghi che non gli sono propri, fino a rasentare lo stato di cristiano, caratteristico nell'ordine delle cose, soltanto di chi può camminare eretto sulle gambe e guardare diritto negli occhi il proprio interlocutore.

Queste bestie il re non avrebbe saputo proprio come adoperarle. Sarebbero uno strumento creato, nell'ordine delle cose, con un fine diverso dai suoi; si ritroverebbe come lo sciocco maniscalco che cerca di perpetuare il proprio mestiere con un cucchiaio da tè.

Lui, il re, invece, abbisognava di tutt'altre bestie. Di quelle che, strisciando nel fango, con il peso della bruttezza e dell'onta familiare, erano avvezze a lottare per sopravvivere ad ogni passo di zampa. Di quelle che, ad incontrale in un vicolo scuro, di notte, si ha il timore che non riconoscano la differenza tra bestia e cristiano e, sovvertendo l'ordine immutabile delle cose, possano perfino ardire a scavalcare quelle differenze e prendere chi è stato creato per essere padrone come preda.

Ne aveva riunite un gran numero, il re, le aveva tirate fuori ancora rabbiose dai loro buchi, dove solevano nascondersi per vergogna o per tender agguati, per poi condurle nel proprio palazzo, facendole ardere nella fame e nella rabbia, ricordando grazie al bastone, quale misera condizione il destino avesse loro riservato.
Ogni tanto gettava in pasto di quegli scarti della natura gli scarti dei suoi pasti, guardandoli contendersi quel misero boccone a suon di grugniti e ansimi, godendo dello spettacolo dal balcone del suo palazzo. A questo, oltre che al bastone, era dovuto l'ascendente che il re si era guadagnato sulle bestie.

Col tempo sua maestà si rese conto che potevano più quelle fiere che i cristiani che lo servivano, così si disfò del suo ciambellano, regalandolo, a brandelli, ai suoi nuovi ciambellani. Spezzettò le sue guardie per nutrire le sue guardie. Smembrò il suo stalliere e i suoi cavalli in modo che i pezzi bastassero per tutti i suoi nuovi vassalli.

Al re bastava presentarsi nei suoi possedimenti con le sue bestie e ogni suddito pagava i dovuti tributi, senza che gli fosse più necessario agitare il bastone, che tanto più del legno erano persuasivi canini acuminati e occhi rabbiosi di fame.

E così durò per molto tempo. Con nessuno tanto audace da opporsi al re, nè tantomeno così pazzo da pensare, anche nella più profonda solitudine e sicurezza, che vi potesse essere qualche alternativa all'ordine naturale delle cose. Che a pensar male, nel buio della notte, si rischia di incappare in una di quelle sue bestie, avide di carne, con i denti di fuori e la bava sgocciante.

A quelli come il sottoscritto, a cui per bizzarra natura e inclinazione d'animo non piacciono i re, non era raro capitasse di dover fuggire a gambe levate sentendo vicino ai calcagni rumore di mascelle che si serravano e spruzzi di bava, correndo a perdifiato fino a trovare un nascondiglio sicuro dietro un uscio o su di un albero, nell'ordine delle cose abbastanza alto, da impedire alle bestie senza il talento dei cristiani di rizzarsi sulle zampe posteriori, di sfamarsi.

Non sempre si trova un albero o un uscio nelle terre del re, inseguito dalle sue bestie. Così un giorno dovetti personalmente saziarne una, che verosimilmente, essendo la più storpia e debole tra tutte, non era riuscita ad accaparrarsi il suo avanzo per quel giorno e per quelli anteriori, con tutto ciò che avanza dal ginocchio fino alla terra.

Badi bene, non che mi dispiaccia per la carne, ne conservo ancora una quantità più che sufficiente per vivere, ma è per via del bastone con cui ora mi devo destreggiare goffamente durante gli spostamenti che mi lagno. Un bastone è una cosa da re, una cosa che non mi si addice, che a incontrarmi di notte, in un vicolo buio, si potrebbe avere il timore o peggio l'impressione che io voglia farne un uso diverso da quello che sono solito.

Non voglio annoiarvi con le mie lagne, passerò piuttosto a descrivere i fatti di quella notte. Quando l'ordine delle cose, pur bizzarramente si ricostruì attraverso fatti insoliti e fascinosi.

Passeggiando col mio bastone che ormai era buio fatto, mi ritrovai quasi senza accorgermene a ridosso del recinto del palazzo del re. Furono i latrati delle sue bestie, per niente assopite a causa della fame e della rabbia, a ricordarmi dove fossi. Mi avvicinai un poco, per vedere se fossi riuscito a scorgere, nel buio, gli occhi di quella bestia in particolare, al nutrimento della quale avevo dedicato una buona e sana parte di me stesso.

Nel vedermi avvicinarsi al suo palazzo il re accorse imprecando col suo bastone.
- Miserabile lebbroso, come ti permetti a presentarti qui nelle mie terre e per di più armato di bastone? Credi di intimidirmi o ancor peggio impietosirmi? -
- A dire il vero, maestà, son capitato qui per caso, che amo passeggiare, avendo avuto la grazia, per opera di una delle sue bestie, di essere alleggerito di quasi tutta una gamba. E sì che si cammina meglio quando non si deve sopportare il peso di due gambe intere. L'unico brutto affare è che mi devo appoggiare a questo bastone, che mi rende sgradito alla vista e minaccioso a chi mi incontra.-
- Ti prendi gioco di me disgraziato? Sei davvero così insolente da credere di poterti beffare di me nelle mie terre, in mezzo alle mie bestie?-
- A dire il vero, maestà, tra me, le sue terre e le sue bestie giacciono venti metri di recinto, e un pesante cancello in bronzo, che non esiterei a definire una valida ragione per non essere spaventato, né dalle vostre bestie né dal vostro bastone. -

Fu allora che il re si precipitò imprecando e agitando il bastone verso il cancello, per distruggere, con la sua chiave, tutto quello che mi proteggeva da bestie e bastoni. Se fu il caso, che a correre nel buio con entrambe le gambe a far da impiccio è pericoloso, o semplicemente l'ordine delle cose, fatto sta che il re inciampò e il bastone staccatosi dalla mano, portata a protezione del volto nella caduta, scivolò oltre il recinto passando sotto le assi.

Quello che seguì è difficile da raccontare, per via dell'eccitazione e del buio che copriva i dettagli e non rendeva giustizia alla grandezza dell'evento.
Per certo durò più di quanto tempo sia necessario ad un cristiano per mangiare un bel pezzo di formaggio, e lo dico per certo, dato che io iniziai a mangiarne un bel tocco ispirato dalla scena e questo finì ben prima del re.

Sono in notti come quelle che vedi come l'ordine delle cose è stato creato, quando la carne si stacca dalle ossa e da altra carne, fino a diventare altra carne ancora, mista a bava. E quando anche il re non ci fù più, come il pezzo di formaggio, rimasero solo i latrati.

5 ottobre 2009

2 ottobre 2009

Libro del Presente -Parte Prima-

La Genesi

Ci crede a stento, di essere di fronte a quella porta. Piediripa di Macerata, a duecento metri dalla Cluentina, di fronte a un casolare che sembra abbandonato da un paio di secoli. Si stringe nel cappotto che fa veramente freddo in ottobre, d'inverno, a duecento metri dalla Cluentina.

Non può piovere per sempre! Tutto ha un inizio e una fine. Che siano cazzate te ne accorgi a Piediripa di Macerata. Lì, l'inverno non è una stagione, è un fatto. Non è mai cominciato, non finirà mai. Ogni anno si prende un mese e mezzo di vacanza per andare chissà dove, dal quindici giugno fino al primo temporale d'agosto. -Vi sono mancato?- E ci si mette la maglia, dopo il primo temporale d'agosto.

Che sia tutto al limite del ridicolo non è una scusa per non bussare a quella porta, ma passa ancora qualche attimo. -Toc, To...-
La porta nasconde un tizio balcanico, che a chiamarlo albanese è razzista, appena appena gobbo, jeans e maglione. Pochi capelli e tanti difetti in viso, che a chiamarli buchi sembra brutto, acne ancestrale probabilmente o qualche malattia balcanica.

- Entri pure signor Eugenio. -
- (Non ci credo) -
- Può darmi il cappotto. -
- (Si come no, che c'ho pure il telefono dentro. Dieci euro per le spese extra?) No grazie, lo tengo. -

Segue un corridoio scialbo, ma caldo, tre poster alle pareti, due sulla destra, l'altro a sinistra. Quei poster con i segni zodiacali e scrittine piccole sparse qui e lì, che nessuno le ha mai lette le scrittine, perchè mentre sfogli i raccoglitori plasticati appena fuori dagli autogrill non vuoi aguzzare lo sguardo, vuoi cercare la locandina di quel film o quel cantante, o quella modella.
Eugenio C. se l'era chiesto un sacco di volte chi potesse voler comprare i poster con i segni zodiacali. Un sacco si fa per dire, una o due, bene che vada. Ora lo sa.
Se li poteva comprare "La maga, sensitiva, lottologa (-Non ci credo-) Gabry". "Riceve a Piediripa di Macerata su appuntamento", diceva l'annuncio.

La stanza sulla destra, alla fine del corridoio, è abbastanza ampia. Sembra più ampia ancora perchè non c'è mobilio, un convettore troppo grande subito a destra della porta, un poster di anatomia (forse?) in fondo, un tavolino largo un metro, due sedie di cui una libera.
Non si può non notare il tavolino entrando in quella stanza. Un piano di truciolato ricoperto in plastica attaccato a quattro spilli di ferro, quadrato. Valore rigorosamente espresso in lire. Che dall'ultima volta che Eugenio C. aveva visto un tavolo del genere erano passati vent'anni, in un baretto sfigato di una frazione spersa nell'inverno maceratese.

-Buonasera signor Eugenio-
- (Non ci credo) Buonasera...ehm...signora Gabry.-
- Si metta comodo, non mordo.- e quello non era un sorriso, era più una fessura scura.

Su una sedia, adesso, c'è Eugenio C. , un tavolo di truciolato ricoperto di pastica lo separa da quella cosa lì, quella che occupa l'altra sedia, mentre il gobbo balcanico richiude la porta, rimanendo fuori dalla stanza.

Uno scheletro. Perfettamente ordinato, con tutte le ossa al loro posto ma pur sempre uno scheletro. Che non tragga in inganno quella pelle troppo larga che gli stava appiccicata sopra e nemmeno quella seconda pelle, improbabile come un vestito stretto e scuro, di un viola coperto di grigio. Alla fine delle maniche, dove c'era solo uno strato di pelle, c'erano perfino delle mani, con tre vistosi anelli di bigiotteria infilati intorno e delle carte, evidentemente troppo larghe, che stavano come incastrate tra le dita. Al di sopra del bavero del vestito c'era la testa. Che fosse di donna lo si intuiva dal rossetto fiammeggiante e dal trucco nero sugli occhi. I capelli, se mai ci fossero stati, erano raccolti sotto un fazzoletto rosso amaranto.

- (Non ci credo, davvero, non può essere che sia venuto fin qui) Signora...io...vede. Non sono mai, ecco, non ho mai chiesto auito a una...come lei. (Dio se sono stupido). -
E riecco la fessura - Stia tranquillo, non sono Vanna Marchi. Non sono una ladra e non sono nemmeno una truffatrice. Io riesco semplicemente a vedere quelo che le persone comuni sono troppo indaffarate per vedere.-
- (Certo come no, ora mi alzo e me ne vado, ora basta!) Senta..."
- Non mi guardi così, dopotutto è lei che ha telefonato. -
- Si lo so. Ed è stato un errore, mi spiace, devo andare. -
- No.
- (Cosa?) ...
- Mi scusi. Volevo dire... lasci che le legga i tarocchi, se poi vuole andarsene, io non vorrò nemmeno i suoi soldi. -
- (Facciamo in fretta, via da questo posto. In fretta.) Va bene signora, ma, onestamente non so nemmeno perchè sono qui. Lo so, ho chiamato io, ma vede... -
- Vuole sapere il passato o il futuro? -
- (Sarà come l'oroscopo, che male ci può essere. Facciamo in fretta.) Il futuro. Il passato ormai è passato. - Abbozza un sorriso Eugenio C.
- E' sicuro di conoscere il suo passato? -
- Si. -

Quanti errori si possono commettere pronunciando una frase di una sola parola, composta da una sola sillaba e due sole lettere?