8 ottobre 2009

Latrati.

I cani del re non erano di razza. Erano stati scelti in questo modo, secondo ragione, a tavolino. Tra i randagi, gli ultimi tra gli ultimi della specie, secondo metodo non sciocco e con maniacale cura.
Lasciatemi un attimo discutere sulle ragioni di questi metodi, perchè su di essi si basano i fatti di allora.

Un cane di razza è membro di una stirpe nobile, e questa nobiltà, lungi dall'essere un effimero titolo, si materializza in una certa facilità nell'apprendere le regole del vivere accanto ad un padrone, la si vede nei gesti e nella postura e rimane come uno stemma, attaccato al portamento della bestia. La quale, sempre pronta ad eseguire con destrezza i compiti per i quali viene addestrata, non manca di mostrare quel rigore e quella superbia che suscitano nell'estraneo un senso di ammirazione e di stima, quasi ad elevare il cane a ranghi che non gli sono propri, fino a rasentare lo stato di cristiano, caratteristico nell'ordine delle cose, soltanto di chi può camminare eretto sulle gambe e guardare diritto negli occhi il proprio interlocutore.

Queste bestie il re non avrebbe saputo proprio come adoperarle. Sarebbero uno strumento creato, nell'ordine delle cose, con un fine diverso dai suoi; si ritroverebbe come lo sciocco maniscalco che cerca di perpetuare il proprio mestiere con un cucchiaio da tè.

Lui, il re, invece, abbisognava di tutt'altre bestie. Di quelle che, strisciando nel fango, con il peso della bruttezza e dell'onta familiare, erano avvezze a lottare per sopravvivere ad ogni passo di zampa. Di quelle che, ad incontrale in un vicolo scuro, di notte, si ha il timore che non riconoscano la differenza tra bestia e cristiano e, sovvertendo l'ordine immutabile delle cose, possano perfino ardire a scavalcare quelle differenze e prendere chi è stato creato per essere padrone come preda.

Ne aveva riunite un gran numero, il re, le aveva tirate fuori ancora rabbiose dai loro buchi, dove solevano nascondersi per vergogna o per tender agguati, per poi condurle nel proprio palazzo, facendole ardere nella fame e nella rabbia, ricordando grazie al bastone, quale misera condizione il destino avesse loro riservato.
Ogni tanto gettava in pasto di quegli scarti della natura gli scarti dei suoi pasti, guardandoli contendersi quel misero boccone a suon di grugniti e ansimi, godendo dello spettacolo dal balcone del suo palazzo. A questo, oltre che al bastone, era dovuto l'ascendente che il re si era guadagnato sulle bestie.

Col tempo sua maestà si rese conto che potevano più quelle fiere che i cristiani che lo servivano, così si disfò del suo ciambellano, regalandolo, a brandelli, ai suoi nuovi ciambellani. Spezzettò le sue guardie per nutrire le sue guardie. Smembrò il suo stalliere e i suoi cavalli in modo che i pezzi bastassero per tutti i suoi nuovi vassalli.

Al re bastava presentarsi nei suoi possedimenti con le sue bestie e ogni suddito pagava i dovuti tributi, senza che gli fosse più necessario agitare il bastone, che tanto più del legno erano persuasivi canini acuminati e occhi rabbiosi di fame.

E così durò per molto tempo. Con nessuno tanto audace da opporsi al re, nè tantomeno così pazzo da pensare, anche nella più profonda solitudine e sicurezza, che vi potesse essere qualche alternativa all'ordine naturale delle cose. Che a pensar male, nel buio della notte, si rischia di incappare in una di quelle sue bestie, avide di carne, con i denti di fuori e la bava sgocciante.

A quelli come il sottoscritto, a cui per bizzarra natura e inclinazione d'animo non piacciono i re, non era raro capitasse di dover fuggire a gambe levate sentendo vicino ai calcagni rumore di mascelle che si serravano e spruzzi di bava, correndo a perdifiato fino a trovare un nascondiglio sicuro dietro un uscio o su di un albero, nell'ordine delle cose abbastanza alto, da impedire alle bestie senza il talento dei cristiani di rizzarsi sulle zampe posteriori, di sfamarsi.

Non sempre si trova un albero o un uscio nelle terre del re, inseguito dalle sue bestie. Così un giorno dovetti personalmente saziarne una, che verosimilmente, essendo la più storpia e debole tra tutte, non era riuscita ad accaparrarsi il suo avanzo per quel giorno e per quelli anteriori, con tutto ciò che avanza dal ginocchio fino alla terra.

Badi bene, non che mi dispiaccia per la carne, ne conservo ancora una quantità più che sufficiente per vivere, ma è per via del bastone con cui ora mi devo destreggiare goffamente durante gli spostamenti che mi lagno. Un bastone è una cosa da re, una cosa che non mi si addice, che a incontrarmi di notte, in un vicolo buio, si potrebbe avere il timore o peggio l'impressione che io voglia farne un uso diverso da quello che sono solito.

Non voglio annoiarvi con le mie lagne, passerò piuttosto a descrivere i fatti di quella notte. Quando l'ordine delle cose, pur bizzarramente si ricostruì attraverso fatti insoliti e fascinosi.

Passeggiando col mio bastone che ormai era buio fatto, mi ritrovai quasi senza accorgermene a ridosso del recinto del palazzo del re. Furono i latrati delle sue bestie, per niente assopite a causa della fame e della rabbia, a ricordarmi dove fossi. Mi avvicinai un poco, per vedere se fossi riuscito a scorgere, nel buio, gli occhi di quella bestia in particolare, al nutrimento della quale avevo dedicato una buona e sana parte di me stesso.

Nel vedermi avvicinarsi al suo palazzo il re accorse imprecando col suo bastone.
- Miserabile lebbroso, come ti permetti a presentarti qui nelle mie terre e per di più armato di bastone? Credi di intimidirmi o ancor peggio impietosirmi? -
- A dire il vero, maestà, son capitato qui per caso, che amo passeggiare, avendo avuto la grazia, per opera di una delle sue bestie, di essere alleggerito di quasi tutta una gamba. E sì che si cammina meglio quando non si deve sopportare il peso di due gambe intere. L'unico brutto affare è che mi devo appoggiare a questo bastone, che mi rende sgradito alla vista e minaccioso a chi mi incontra.-
- Ti prendi gioco di me disgraziato? Sei davvero così insolente da credere di poterti beffare di me nelle mie terre, in mezzo alle mie bestie?-
- A dire il vero, maestà, tra me, le sue terre e le sue bestie giacciono venti metri di recinto, e un pesante cancello in bronzo, che non esiterei a definire una valida ragione per non essere spaventato, né dalle vostre bestie né dal vostro bastone. -

Fu allora che il re si precipitò imprecando e agitando il bastone verso il cancello, per distruggere, con la sua chiave, tutto quello che mi proteggeva da bestie e bastoni. Se fu il caso, che a correre nel buio con entrambe le gambe a far da impiccio è pericoloso, o semplicemente l'ordine delle cose, fatto sta che il re inciampò e il bastone staccatosi dalla mano, portata a protezione del volto nella caduta, scivolò oltre il recinto passando sotto le assi.

Quello che seguì è difficile da raccontare, per via dell'eccitazione e del buio che copriva i dettagli e non rendeva giustizia alla grandezza dell'evento.
Per certo durò più di quanto tempo sia necessario ad un cristiano per mangiare un bel pezzo di formaggio, e lo dico per certo, dato che io iniziai a mangiarne un bel tocco ispirato dalla scena e questo finì ben prima del re.

Sono in notti come quelle che vedi come l'ordine delle cose è stato creato, quando la carne si stacca dalle ossa e da altra carne, fino a diventare altra carne ancora, mista a bava. E quando anche il re non ci fù più, come il pezzo di formaggio, rimasero solo i latrati.

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