25 luglio 2011

La lettera.

Stava lì sul tavolo, col francobollo, il timbro postale e tutto il resto. Sedetti e notai il mio nome sopra l’indirizzo di casa mia, niente mittente. A quell’ora di notte potevo scegliere se dedicarmi a lei o a qualcun altro dei miei romanzi notturni.
Quando dico notturni, intendo quei romanzi che parlano della notte, quella vera, l’unico argomento appena interessante che si possa trovare al confine con l’apatia del caldo estivo. Io li amo quei romanzi. Il punto è che odio i loro autori. Céline è troppo impotente, McCarthy troppo americano, Cioran troppo bravo a scrivere dei miei pensieri, Caraco troppo una brutta copia di tutti gli altri.
Strappai la busta , saranno state dieci pagine scritte in corsivo fitto, inutile anche provarci. Accesi una sigaretta e girai i fogli per vedere chi avesse avuto il coraggio di scrivere così tanto.
Doveva essere qualcuno che non mi conosceva affatto, un estraneo, altrimenti avrebbe dovuto sapere che non avrei mai trovato la voglia di leggere tutto quello spreco di inchiostro.
Niente firma, tanto meglio. Tempo sprecato il suo. Tempo sprecato in generale. Tre tiri lenti e lasciai ricadere i fogli sulla scrivania. Se solo la mia chitarra non fosse stata nell’altra stanza avrei potuto pure suonare per un po’.
La sigaretta si consumava lentamente tra le dita, aspettai che smettesse di brillare, con la cenere caduta a terra e tutto. Tornai al tavolo con la chitarra in mano e suonai il peggior preludio di Bach degli ultimi vent’anni. Tedeschi di merda.
Dovevo aver dimenticato, per il caldo, il motivo per il quale suonavo sempre meno, dopo aver speso decine, che dico, centinaia di ore su quella chitarra: non ne valeva la pena. Tempo sprecato. Non avrei sopportato di dover sentirmi ancora suonare. Ritornai da lei.

Caro C.
tu odi tuo fratello dal profondo del cuore. Questo è un sentimento veramente vile.

Iniziava proprio così: tu odi tuo fratello dal profondo del cuore. Questo è un sentimento veramente vile. Svelato l’arcano. Doveva essere proprio lui il mittente, mio fratello. Inutile firmarsi quando la monotonia dei silenzi accumulati negli anni ti lega indissolubilmente a qualcuno. Il rancore non è come l’amore, che può essere universale. Il rancore ha sempre un volto. Piuttosto che chiamarmi aveva voluto scrivermi, che vigliacco, era una cosa da lui. Dieci anni di silenzio e cosa cercava ora con quella lettera? Nemmeno lui era così ottuso da farsi passare per la mente l’idea di una riconciliazione. Accesi un’altra sigaretta e gettai il secondo pacchetto della giornata, il terzo era a una distanza incolmabile, sul tavolo della cucina. Sapevo che sarei andato a prenderlo entro breve. C’è una sola cosa che batte l’apatia: la nicotina.

Non ti buttare giù, non ancora. Siamo solo all’inizio. Pensa, oltre a tuo fratello, a quanti altri hai calpestato e fatto soffrire nel corso della tua vita. La tua famiglia, le persone che ti hanno amato, M.
Te la ricordi M.? Ricordi quando ti urlò in lacrime “Mi hai rovinato la vita”? Era l’urlo di tanti, più di quanti tu stesso possa immaginare. “La nostra felicità ha un prezzo: la felicità degli altri”, parole tue. “La strada per la felicità è lastricata delle teste mozzate delle persone che ci camminano accanto. Per questo non mi fido di chi vuole essere felice. Un giorno o l’altro una di quelle teste potrebbe essere la mia. La felicità, alla fine, conta poco. Essere felice, in fondo, non mi interessa nemmeno. In fondo c’è solo la notte”. Te le ricordi queste parole? Guardati allo specchio, ora.


Ecco cosa voleva mio fratello. Farmi soffrire. Certo che mi ricordavo M., anche se non sapevo se l’avessi mai amata. Di sicuro non l’avevo mai capita fino in fondo. Ricordavo le urla, gli insulti, il suo pianto disperato. Mi hai rovinato la vita!
Ora M. ha i capelli lisci e biondi, allora li aveva ricci e scuri. Ha quindici anni in più, gli occhi un po’ più tristi e una figlia di otto anni che le somiglia in maniera indecente. Forse era vero che le avevo rovinato la vita. Me la immaginavo a partorire sua figlia per rivalsa, per vendetta, per farla soffrire come aveva fatto lei, per replicare il suo modello, perché venisse a questo mondo che mal comune è mezzo gaudio. La troia!
Ecco cosa si ottiene ad aprirsi a un fratello. Dopo dieci anni di rancori covati nel silenzio, vi scriverà una lettera col solo intento di farvi soffrire, armato di quelle confidenze. Mi trascinai fino al tavolo della cucina e mentre mi accendevo una sigaretta dal pacchetto nuovo mi affacciai alla finestra. Il caldo appiattiva la strada in uno stagno di solitudine e sopra, la notte.

Ci sei riuscito? No vero? Mi chiedo infatti come potresti…

Le pagine seguenti erano l’elenco più accurato, freddo e meticoloso delle vergogne di tutta una vita che avessi mai visto. Tutti i miei tradimenti, le bassezze, le mediocrità, i fallimenti ripetuti, le insicurezze, i respiri affannosi, le fughe vigliacche e i pianti strozzati nelle lunghe ore notturne. Un lama precisa che tagliava la mia vita in mille brandelli, uno più meschino dell’altro. Sangue dappertutto. Era veramente troppo, anche per me. La rabbia mi assalì cieca. Quel bastardo! Al posto di vivere la sua vita, per anni aveva soltanto osservato la mia. Aveva annotato tutto, gli eventi, le reazioni, gli sguardi, persino i pensieri. E ora, dopo dieci anni, mi serviva le mie budella fredde su un piatto d’argento. Come si può arrivare ad odiare qualcuno a tal punto? Con che coraggio si può giudicare così aspramente un uomo? Accesi una sigaretta cercando di calmarmi. Quasi non tirai nemmeno. La lasciai morire lentamente nel posacenere mendicando da quegli istanti quel coraggio che mi sarebbe servito per finire di leggere.

Siamo arrivati al piatto forte, alla portata principale. L. Almeno per lei riesci a piangere un po’? Mi ricordo quando mi parlasti di lei, di come avesse cambiato la tua vita in un istante. Quando tremante raccontavi del sesso sotto la pioggia fresca di fine estate, della tua vita segreta fatta di corse notturne in auto e di risvegli appannati di eroina e del suo profumo. “La tua tempesta perfetta”. Erano menzogne: lei era onesta, tu sei solo un vigliacco.

Mi sentivo soffocare, presi una sigaretta dal pacchetto ma si spezzò tra le mie dita, così rinunciai all’idea di fumare, per un minuto. L’ennesima sigaretta iniziò a bruciare tra le mie labbra e il fumo che mi entrava negli occhi almeno mi impediva di continuare a leggere. Per impedirmi di pensare invece sarebbe servito ben altro, così pensavo. Pensavo e non la smettevo.
L. era bellissima. Io non l’avevo mai amata. Avevo amato si, ma non lei. Avevo, in fondo, amato soltanto la sua immagine, in una parola: me stesso. Ero arrivato a un passo dallo spezzarmi in quell’autunno e in un certo senso spezzato già lo ero. Diviso in due perché a vivere due vite si perde una parte di se stessi. Capire cosa sia vivere per due non è facile. Significa rinunciare al sonno, per prima cosa, poi alla propria consapevolezza, al proprio equilibrio e infine alla propria sanità mentale. Non esiste un MrHide sano di mente. Il mio, di MrHide, era davvero grottesco, devo ammettere.
Eppure mi piaceva. Se guardare allo specchio il mio pigro Dr Jeckyll mi deprimeva, in quelle notti, quando MrHide sorgeva dal lato oscuro della luna era un piacere. Narciso che si specchia in una palude scura come un pozzo vuoto, come la notte. Amavo lui, non L.

Ti ricordi l’ultima volta che l’hai vista? Ti aiuto io se vuoi. Era la notte tra la festa di Tutti i Santi e il giorno della celebrazione dei morti. Una telefonata, tu che rispondi annoiato: ok, va bene, passo a casa tua. Ci vediamo sul tardi, dopo le due.
In quella casa, quella notte, trovasti due biglietti per il Venezuela, per volare al di là della notte e quegli occhi che ti guardavano. Quegli occhi erano stati la causa di tutto. Quegli occhi avevano fatto nascere il tuo MrHide, lo avevano acceso, e l’avevano amato. Le stesse due stelle verdi che ti inchiodavano al muro, circondate da quel viso gonfio e spaccato dai tuo pugni. “Non mi fai paura”. Come è stato guardare negli occhi di chi, anche a un passo dalla notte, non trema?

Io tremavo. Porco dio se tremavo. I fogli caddero e prima di ritornare coi ricordi a quella notte sentivo di dover fumare ancora, anche se la gola faceva male e a stento riuscivo a respirare mentre soffocavo nel pianto. L’accendino vomitò un’altra fiammata, il fumo rimase sospeso a mezz’aria, pesante come un’ombra cupa. Quella notte stracciai il mio biglietto. Se tu non parti, neanche io parto. Sarò un’altra. Staro qui, con te. Il fatto è che io non volevo un’altra. Volevo quegli occhi, volevo la mia doppia vita, volevo me stesso e vaffanculo il resto. Si, vaffanculo anche lei. Quella che voleva diventare una commessa o una segretaria o lo sa solo dio cosa e vivere in un paesino di provincia. Se c’era una cosa che non avrei mai potuto sopportare, la cosa della quale non ammettevo nemmeno la possibilità, era il vederla tornare a casa con gli occhi bassi, dopo dieci anni di lavoro e di mediocrità. La mia mediocrità. Io amavo solo me, il me creato da quegli occhi, da quel corpo, da quella donna. Da chi attraversava tre frontiere carica di eroina come un animale, occhiali da sole sul naso e trentotto millimetri sotto il gilet. Così per sempre la volevo, e perderla era l’unico modo per averla per sempre. Per sempre quelle notti bagnate di sesso e poi giù, con l’ago nelle vene e correre veloci verso la notte, per sempre mia. La mia tempesta perfetta. Uscendo da casa sua sentii le sue ultime parole per me: se non possiamo bruciare insieme, allora, brucerò da sola.

Era una citazione di un libro che non avevo ancora letto, ironia della sorte lo lessi quando era già troppo tardi. La differenza tra i libri e la vita è che i primi si amano e ti permettono di vivere, la seconda si odia e ti uccide.
Così L. bruciò. L’indomani volò sopra l’oceano e fu arrestata nove mesi dopo negli Stati Uniti. In attesa del processo in cui rischiava ventidue anni, si taglio la gola con un piatto rotto e morì dissanguata nella sua cella, nella prigione federale della città di Boston.

La disperazione è così, è staccarsi tutto a un tratto dal mondo e precipitare all’infinito in un istante.

Non avevo mai detto una sola parola di L. a mio fratello. Girai di nuovo i fogli e quel vuoto alla fine dell’ultima pagina era come uno specchio per la mia anima. Chi? Se non lui, chi?
Rilessi tutto e mi resi conto che nessuno poteva sapere così accuratamente tutto ciò che era successo nella mia vita. Un nemico senza volto si materializzò nel buio che vegliava fuori dalle mie finestre. L’accendino brillò ancora, i polmoni si strinsero.
Qualcuno mi conosceva tanto a fondo e mi odiava così sinceramente e non avevo idea di chi potesse essere. Rilessi ancora da capo e ogni riga urlava il suo disprezzo, ogni pagina trasudava odio, ogni frase era affilata per ferire, per uccidere. Chi?
Pensai a lungo a una risposta plausibile ma per quanto mi sforzassi mi perdevo in un labirinto di supposizioni folli e di ipotesi insensate. Il mio nemico era invisibile, vuoto, un niente fatto di odio. Odio nei miei confronti. Mi sentivo indifeso, minacciato, inerme, in balia di tanto disprezzo. Il cuore batteva come se stesse per scoppiare, le mani tremanti. Chi?

Volevo urlare ma la voce si strozzò in gola. L’unica cosa che volevo era uccidere quel nemico invisibile, l’odio si combatte con l’odio! Presi tutti i fogli e stracciai la lettera in mille pezzi, il mio urlo uscì dal petto come il sangue da una ferita viva. Muori! Urlai, un attimo prima di svegliarmi.