30 marzo 2010

The sound of silence.

Immagino sia capitato anche a voi.
Cena a due, una compagna muta, muti anche voi. Quel silenzio insistito che non è complicità, è disagio. Non aver niente da dire perché non si vuole aver niente a che fare con chi vi siede di fronte. Passano i minuti, i suoni sembrano accentuarsi. Sono un sollievo perché il silenzio è insopportabile ma anche una condanna perché, quel silenzio, lo sottolineano.
Che dareste per uscire da quelle situazioni. Non è così?

Oppure in un luogo affollato dove tutti parlano, ma nessuno in fondo ascolta. Qualcuno si rivolge a voi ma voi leggete, per distrarvi, la locandina che sta alle sue spalle, sempre più interessante della conversazione in atto. Sorridete, ma è un ghigno, è il disagio di voler essere altrove, di essere qualcun altro.

Basta essere uomini per provare questo disagio almeno una volta nella vita. Eppure ci sono uomini che sembrano esserne immuni: i nostri politici.

Da ieri notte il silenzio delle nostre case è rotto dalle dichiarazioni di tutti i politici che blaterano di aver vinto le elezioni.
Il mio partito ha aumentato i suoi voti. Il presidente eletto in questa regione è del mio partito: ho vinto. Partendo da una situazione così svantaggiosa abbiamo si perso, ma con onore, quindi abbiamo vinto. Siamo stati l'ago della bilancia in tutte le regioni, con il nostro 2.5 percento. Il merito di quella vittoria è nostra. Vinto. Vinciamo. Vincere e vinceremo!

Credo di aver esaurito tutte le locandine mai stampate in tutte le tipografie del mondo in questi due giorni. Ho letto le etichette dei vestiti, i volantini del circo, gli oroscopi, contato le bottiglie dietro i banconi dei bar, letto le targhe di tutte le automobili che mi sono passate di fronte. Perdio, credo di aver letto anche focus, per quanto mi annoiava il rumore di fondo di chi parla senza mai ascoltare.

Eppure i nostri politici non si sentono a disagio, anzi, non sentono proprio. Parlano, ma non ascoltano. Non sentono questo insopportabile silenzio.

Dicono di aver vinto, ma hanno perso. Il partito che ha raccolto più voti in praticamente tutte le regioni è stato quello dei muti, il partito del silenzio. Più di un italiano su tre ha deciso di stare zitto, indispettito, a disagio. Stiamo zitti non perché non abbiamo niente da dire, ma perché non c'è nessuno disposto ad ascoltare, e noi non abbiamo più intenzione di avere niente a che fare con chi non ha la volontà di ascoltare, con chi non è a disagio nemmeno nel silenzio, non ha più orecchie per ascoltare perché può coprire ogni voce, ogni silenzio, con la propria.

Io mi chiedo, vi chiedo: fino a quando potranno ignorare questa tensione? Fino a quando potranno calpestarci? Per quanto ancora potranno coprire e nascondere, con la loro voce, la nostra? Fino a quando potranno ignorare il suono del silenzio?

22 marzo 2010

L'ultimo mondo.

Era chiaro come se ne sarebbe andato il primo. Ci aveva pensato a lungo. Tutto era stato preparato nei minimi dettagli: l'anestesia, il medico, quella stanzetta senza finestre. Era una vecchia sala prove. Per anni aveva tenuto il mondo lontano dalle urla del rock. Ora sarebbe stata testimone dell'ultimo atto, del primo mondo che muore.

Trovare il medico non era stato facile. Parlare a mezze frasi, cercare di scorgere qualcosa negli occhi dei vari candidati, prima che fosse troppo tardi. Prima di fare un passo che non avrebbe ammesso la retromarcia. Prima di lasciare un'orma incancellabile.
Era stato attento. Mai un passo falso. Mai quell'ultima parola. Finché un giorno aveva trovato quello che faceva al caso suo, la luce negli occhi di quello che sarebbe stato il suo medico. Fece l'ultimo passo verso il primo mondo che muore. Non si domandò se il medico fosse consapevole di stare per morire anch'egli, che quella luce nei suoi occhi non si sarebbe più accesa. In fondo non era importante.

Arrivò quel giorno: il primo mondo morì. Andò tutto come previsto. Si svegliò ed era rimasto solo quel suono: toc, toc, toc.
L'aveva messo in conto e non era un problema. L'aveva sempre saputo. Un mondo che muore lascia comunque un cadavere, fosse anche un suono: toc, toc, toc. Fosse metallo, pietra, legno o soffice erba, quando si trasformava in uno sfreghio, in un grattio di fili strappati...era solo un cadavere freddo. Un cadavere non fa male, soprattutto se hai sempre saputo che sarebbe stato lì, dopo la morte del primo mondo.

A interrompere il suono c'era solo la notte. Che a chiamarla notte è ironico, perché la notte faceva parte del primo mondo e con lui era morta. La si poteva chiamare sonno, stanchezza o riposo. Cessava il suono e arrivavano gli altri mondi.

Quando se ne rese conto fu terribile. Aveva pensato a tutto, perfino al suono, ma non a quegli altri mondi. Pensava di aver ucciso il mondo, invece aveva ucciso solo il primo mondo. Negli altri mondi c'erano quasi tutti: suo padre, le sue sorelle, i suoi figli. C'era la sua casa, la sua città, le altre città, anche quelle che non aveva mai visitato, anche quelle immaginate e immaginarie. Cessava il suono e arrivavano gli altri mondi, implacabili.

Provò per qualche tempo a rinunciare a quella che non poteva più essere chiamata notte, cammianava, e quel suono lo accompagnava: toc, toc, toc. Alla fine, ogni volta, crollava. Gli altri mondi tornavano, suo padre gli parlava, le sue sorelle giocavano di fronte a lui, i mille cieli di tutti i colori lo schiacciavano sotto i loro nomi. Con i loro nomi.

Pensò di tornare dal suo medico, ma non poteva. Era morto col primo mondo, non poteva più raggiungerlo, aveva solo un suono: toc, toc, toc.

Sembrava tutto perduto quando dopo una lunga camminata e un lungo concerto di toc, toc, toc, articolati su vari materiali come note emesse da strumenti diversi si lasciò andare ancora una volta al riposo. Quelle figure che lo venivano a trovare erano diverse, senza più nomi. Guardava i loro volti senza più riconoscere il padre e le sorelle, prima solo vuoti ovali al posto dei visi, poi neppure quelli. Sparirono una dopo l'altra le figure degli altri mondi. Sparirono i ricordi e con essi i nomi. Le città apparvero piatte, i muri sbiadirono perché aveva dimenticato cosa significasse la parola muro.

Toc. Toc. Toc. Poi di nuovo il sonno.

I cieli sparirono in un buco nero, poi fu il buco a sparire, perché buco non significa più alcunché. Sparirono i suoni, le voci, perché non c'erano più storie da raccontare. Le storie che sono l'unica storia di tutti i mondi.

Toc. Toc. Toc. Camminare. Poi abbandonarsi a quella che non poteva più essere chiamata notte.

Infine vide uno specchio che rifletteva la sua immagine, l'ultimo mondo. Vide lo specchio svanire, perché aveva dimenticato cosa significasse la parola specchio. Vide il suo volto diventare un ovale vuoto, la sua immagine sparì col suo nome, con la sua storia, che poi è l'unica storia di tutti i mondi. Non c'era più.

Si svegliò e cercò tentoni il bastone da passeggio, si alzò e fece due passi: Toc, Toc, Toc. Si passò lentamente le mani sul volto e toccò le orbite vuote che avevano ospitato i suoi occhi fino a quel giorno, in quella piccola sala prove.
Per la prima volta in vita sua, sorrise.

13 marzo 2010

8 marzo 2010

8 marzo: festa dei rasoi degli uomini.

Oggi si ricorda il 1908.
Si dovrebbe ricordare; ma si festeggia.

Centoventinove operaie dell'impresa Cotton di New York, centodue anni fa, furono rinchiuse nella loro fabbrica, dai loro datori di lavoro e arse vive.
Erano colpevoli di aver scioperato.

Quale miglior modo di ricordarle di una bella cena, una sbronza e uno strip?
Due fiori gialli? Perché no. Magari una trombatina dopo, io sopra e lei sotto. Quindici minuti per marcare il cartellino, che non si monti la testa. Giusto per ricordare il momento solenne dell'otto marzo.

A New York, alla fabbrica della Cotton, centodue anni prima della mimosa che comprerete o riceverete oggi, quelle donne stavano solo chiedendo una vita migliore. Stavano reclamando la sola vera aspirazione che ogni essere umano che sbuca in questo mondo possiede: l'essere felice.

Ne è passato di tempo. E' passato il femminismo. E' passata la rivoluzione sessuale: il demone dentro. E' passato il postfemminismo, che come uno tsunami di sborra ha sommerso tutto.
Che rimane oggi di quelle centoventinove operaie bruciate vive?

Quasi nulla, a stento il ricordo. L'hanno cancellato il ricordo, nascosto sotto un poster della Canalis che bacia George Clooney.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare.

Non che non c'abbiano provato, almeno per un po'. Purtroppo la strada era quella sbagliata. Le altre operaie, le madri, le mogli, le puttane, le figlie, tutte quelle che non erano in quella fabbrica, a New York, centodue anni fa, ci hanno provato. Ma a fare cosa?

La peggior cosa possibile, pensando che fosse l'unica. Hanno provato a scimmiottare l'uomo. Mancava però il pene. Così hanno preso a scimmiottarne il ruolo, il modello.

Che errore! Che condanna! Pensare che noi uomini stavamo aspettando loro, quelle centoventinove operaie della Cotton, per liberarci dal nostro modello. Da soli non potevamo farcela, sotto sotto l'abbiamo saputo sempre. Aspettavamo quelle voci, ma quelle grida erano state soffocate nel fumo, a New York, centodue anni fa.

Allora sono arrivate le mogli, le madri, le suore, le puttane, le figlie che volevano essere il nostro modello, quel modello che noi uomini avevamo costruito per renderci schiavi. Le mura della nostra cella: la chiesa, la casa, la società, il dovere, il comando, il cazzo eretto: produci consuma crepa.

E' un giogo. Troppo basso per essere attraversato in piedi, con la schiena dritta. Così ci siamo chinati, ingobbiti. Le ossa si sono rotte, ci siamo mutilati da soli: deformi nel modello che noi avevamo disegnato col nerofumo del rogo del 1908, a New York, nello stabilimento della Cotton.

Donna. Madre. Figlia. Sposa. Serva. Giù la testa. Porta la croce. La morale. La società. Il sistema. Lo stato. La chiesa. La famiglia. Le città. Le culle. I letti. Le bare. I bambolotti, che un giorno sarai madre. Il vestito da sposa, che quel giorno sarai la più bella. La giacca. La gonna. Il lavoro. Il successo. La gara. Il cazzo eretto. Produci. Consuma. Crepa.

Hanno preso il nostro rasoio e non avendo barba l'hanno usato per decapitarsi, per passare anche loro sotto il giogo costruito dagli uomini. Storpie, deformi, come deforme era il loro modello. Il cristo uomo deforme: padre, marito, padrone, figlio, amante, schiavo, carnefice.

A passare sotto quel giogo non sapevano cosa le aspettava. Mi viene da essere contento per quelle centoventinove operaie. Loro almeno non hanno visto altro che fumo negli occhi, nei polmoni, il fuoco sulla pelle. Non hanno visto Sex and the City, le veline, le stagiste godive, la Carfagna ministro delle pari opportunità, le donne manager, FX, Studio Aperto, la Canalis, le mogli dei calciatori, Ilari Blasi, quelli che il calcio condotto dalla Ventura, gli stivali da seicento euro, l'anoressia, le erboristerie, le diete, la Santanchè, le palestre, le copertine photoshoppate. In una parola: cadaveri deformi, automutilati con i nostri rasoi e considerate alla pari di idrovore da sborra.

E noi, qui, impotenti e deboli, ad aspettare ancora di essere salvati.

E' tempo di festeggiare.