La stazione della metropolitana è densa di fumo. Sto in
piedi a stento, retto dell’inerzia dei corpi accalcati intorno sulla banchina, più
che dalla volontà delle mie gambe. Un pedone intrappolato su una scacchiera. Potrei
fare solo un passo, solo in avanti. Tornare indietro ormai è fuori discussione.
La sirena che annuncia il prossimo treno mi risveglia improvvisamente e per un
attimo cerco di ricordare da quanto tempo è che non dormo davvero, sforzo
inutile, non riesco a pensare a nient’altro che al fumo e a quei manifesti
elettorali spiaccicati sul muro, al di là delle rotaie
Cinque
anni fa quei manifesti non c’erano. Un’ordinanza aveva voluto degli specchi su
quel muro grigiastro della metropolitana. Si pensava che fossero un deterrente
per i suicidi, dopotutto chi avrebbe avuto il coraggio di uccidersi guardandosi
in faccia. Una boccata di fumo mi arriva ai polmoni.
Il
treno si ferma e, meccanicamente, i pedoni neri avanzano verso i bianchi e
viceversa. Si specchiano gli uni negli altri senza neppure guardarsi in faccia.
Nessuno anche volendo li potrebbe distinguere. Un passo gli uni e un passo gli
altri, in pochi istanti i neri sono bianchi e i bianchi sono neri. Penso che
non è il mio passo. La folla dei pedoni quasi mi travolge, ma con una forza che
non credevo di avere, resto fermo sulla banchina e per un attimo è quasi come
se il pensiero di poter compiere qualche altro movimento sulla scacchiera mi
sfiorasse lusinghiero. E’ solo un momento. La scacchiera si riempie
frettolosamente, aspettando la prossima partita. Avrei dovuto aspettare il
prossimo treno, quello delle sei e quarantatre. Istintivamente gli occhi si
muovono e cercano di bucare la cortina di fumo per arrampicarsi in su, fino
all’orologio digitale fissato sul muro appena dietro la banchina. Il vetro è
rotto. Trentasette gradi spariscono dal display lasciando spazio al segnale
orario ma rimanendo appiccicati al fumo e ai miei pensieri. Sei e trentotto. Ho
ancora un po’ di tempo.
-Ciao,
di nuovo qui?-
E’
bellissima. Era bellissima. L’unica cosa a cui il fumo sembra non voler o non
potersi attaccare. E’ così come la ricordavo quell’ultima volta in cui ci
eravamo lasciati cinque anni prima, su questa stessa banchina, occhi neri e
quella dolcezza che tanto mi aveva tormentato.
-Mi
dispiace davvero. Non doveva andare in quel modo. Non dovevi essere qui.
Cos’hai?
Non dici niente?-
Cos’hai?
Non dici niente?-
Ti
amo. Avrei voluto averle detto solo questo. Non era necessario che fosse stato
cinque anni fa su una fumosa banchina della metro. Mi sarebbe bastato farlo in
qualsiasi altro momento. Quando ci eravamo visti per la prima volta nel viale
dietro la trattoria del quartiere vecchio o dopo il primo bacio o ancora ogni
giorno in cui mi ero svegliato accanto a lei. Dio come vorrei poterlo dire ora.
La
sirena annuncia il treno delle sei e quarantatre. I pedoni sono fermi in attesa
di fare il loro passo, ma il mio li anticipa, mentre mi rifletto un’ultima
volta sugli specchi che non sono più lì.
Di
nuovo insieme –Ti amo-.
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